Il nuovo millennio ha portato con sé la consapevolezza del cambiamento climatico, l’assoluto bisogno di trovare soluzioni definitive più green e sostenibili per continuare a vivere su questo pianeta senza autodistruggerci (perché, parliamoci chiaro, i pericoli sono tutti per noi, gli ecosistemi avrebbero secoli e secoli per ripristinarsi in nostra assenza) e tutto ciò che ne consegue. Tra crisi di risorse, informazione ed educazione della popolazione al cambiamento e, non ultimo, addirittura un intero ministero dedicato alla transizione ecologica. Eppure, in una fase delicata e già così complessa come questa, in Italia c’è ancora chi parla di nucleare; il nucleare quello “vecchio”, per fissione, che genera scorie radioattive complicate da gestire.
Proviamo, quindi, a ripercorrere la storia di una delle nostre centrali nucleari, cercando di capire che impatto abbia avuto sulle evoluzioni delle nostre città e del nostro Paese e, soprattutto, se rappresenti ancora un problema la sua permanenza sul territorio. Entriamo dentro la centrale elettronucleare del Garigliano.
Una centrale di prima generazione – Gli impianti nucleari vengono catalogati in quattro generazioni: la centrale del Garigliano appartiene alla prima. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna pensare al fatto che:
- la generazione I individua i primi prototipi di reattore, costruiti a partire dagli anni ’40; è la generazione dei primi due reattori di Chernobyl, per intenderci;
- la generazione II è quella delle centrali di Fukushima e Three Mile Island, entrambe interessate da disastri rilevanti;
- la generazione III è nata per cercare di rimediare agli errori fatti nelle prime due e prevede anche un sottogruppo più “avanzato”, prediligendo strategie superiori di controllo che, però, non hanno avuto il successo sperato, tanto che si parla, appunto, di generazione IV da quando è partito un progetto dedicato negli USA (in collaborazione con altre nazioni) nel 1999 .
Già questa panoramica offre un punto di vista interessante.
La centrale elettronucleare del Garigliano (che i residenti dell’area chiamavano “centrale atomica”) è stata costruita in 4 anni (dal 1959 al 1964) nel Comune di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, sul versante nord che segna i confini col Lazio Meridionale con i paesi di Castelforte, Santi Cosma e Damiano e Minturno: possiede un unico reattore da 160 MWe (megawatt elettrico) a uranio leggermente arricchito, moderato ad acqua leggera e raffreddato secondo lo schema BWR (reattore nucleare ad acqua bollente). Il progetto è dell’ingegnere Riccardo Morandi dalla Società Elettronucleare Nazionale S.p.A. in collaborazione con il CNRN (Comitato nazionale per l’energia nucleare, oggi ENEA) e con tecnologia della americana General Electric (la compagnia fondata nel 1878 da Edison).
Nel 1965 la centrale è passata sotto il controllo di Enel ma la vita dell’impianto è stata davvero molto breve: nel 1978 era già tutto fermo per manutenzione e, valutate sconvenienti le spese per la riparazione, la centrale è stata disattivata definitivamente ancor prima del referendum che avrebbe messo un punto alla storia del nucleare in Italia. Era il 1982: due anni dopo il terremoto dell’Irpinia. La sismicità del territorio ha sicuramente avuto un ulteriore ruolo in questa decisione.
Ma il nucleare è un affare di cui non ci si può liberare così facilmente, con una semplice chiusura. La fissione, infatti, genera scorie radioattive che necessitano di secoli – persino centinaia di migliaia di anni – per decadere (cioè per decrescere in maniera importante in livello di radioattività e, quindi, di pericolosità); scorie che hanno bisogno di essere tenute lontano dagli agglomerati abitati e da coltivazioni e allevamenti di animali, perché in grado di fare danni biologici molto seri (contaminando aria, acqua, terreni, alimenti e diventando causa di patologie gravissime come la leucemia).
La centrale del Garigliano ha prodotto complessivamente circa 12,5 miliardi di kWh di energia elettrica: perciò, da quando è stata chiusa, si è reso necessario garantirne il mantenimento in sicurezza, sia per quanto riguarda le strutture e gli impianti che, ovviamente, per le scorie prodotte. In un articolo dedicato approfondiremo le delicate questioni dello smantellamento, con il relativo allontanamento del combustibile nucleare e la decontaminazione generale, e delle conseguenze della sua attività a livello locale. L’operazione di decommissioning è competenza della SOGIN (la società statale italiana responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari nostrani e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi), dal 1999 proprietaria dell’impianto.
Patrimonio architettonico – Nel 2009 la centrale ha ottenuto il Decreto di compatibilità ambientale (VIA, Valutazione d’Impatto Ambientale), grazie al quale è stato possibile attivare il decommissioning previsto nell’istanza di disattivazione.
Grazie al VIA, gli edifici reattore e turbina, progettati dall’ingegner Morandi e dichiarati “patrimonio architettonico del nostro Paese”, non verranno demoliti dopo la decontaminazione e lo smantellamento dei sistemi interni, come stabilito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
La centrale del Garigliano, inoltre, è stata la seconda del nostro territorio (dopo quella di Trino) ad ottenere il decreto di disattivazione (2012) approvato dal Ministero dello Sviluppo Economico su parere dell’Autorità di sicurezza nucleare e delle altre istituzioni competenti.
Tuttavia, nel 2014 si sono fatte strada alcune controversie su possibili fughe radioattive del sito che vale la pena approfondire nel prossimo capitolo dedicato al nucleare “di casa nostra”.
Si prevede che le 268.150 tonnellate di rifiuti e le 5.739 tonnellate di rifiuti radioattivi, per un costo complessivo di 383 milioni di euro, richiederanno un lavoro costante (cominciato seriamente solo nel 2006) che dovrebbe concludersi entro il 2028.