Quando in Italia si parla di nucleare si avverte una sensazione di distanza, di non appartenenza: sembra qualcosa di così lontano da noi, eppure il referendum che l’ha abrogato è andato in vigore meno di mezzo secolo fa.
La ragione, forse, è da ritrovare nel fatto che – perlomeno da Roma in giù – gli impianti dedicati sono stati disattivati molto presto: la centrale elettronucleare di Latina, la prima ad essere costruita su suolo italiano, è stata chiusa proprio nell’anno del referendum (1987), mentre quella del Garigliano era stata fermata per manutenzione nel ’78 e definitivamente disattivata già nell’82. Una decisione che dipendeva da due fattori: la sismicità del territorio, divenuta palese con il terremoto dell’Irpinia, e la progettualità generale, che prevedeva un funzionamento continuativo per non oltre 30 anni dalla prima accensione del reattore (almeno per quanto concerne l’impianto latinense).
La prima centrale elettronucleare italiana – La storia del nucleare in Italia è cominciata nel dopoguerra: la decisione di costruire la prima centrale sul nostro territorio, infatti, risale all’agosto 1955 e alla conferenza “Atomi per la pace” di Ginevra. Negli anni ’60 c’erano già tre impianti sul suolo nazionale: si partì con quello di Latina (costruito tra il 1958 e il 1962) a cui, meno di un anno più tardi, si affiancò quello del Garigliano (la più potente al mondo al momento dell’entrata in funzione) e, poco dopo, quello di Trino (Piemonte); per quello del Caorso (Emilia-Romagna) bisognò aspettare il 1978.
Nel 1966 l’Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettrica da fonte nucleare dopo USA e Inghilterra. All’epoca non si aveva ancora un quadro preciso sui benefici ed i rischi che comportava lo sfruttamento di questo tipo di tecnologia; anche i metodi produttivi erano variegati e, per questo, il nostro Paese si dotò di tre centrali differenti; impianti all’avanguardia che funsero non solo da apripista per l’estero (i reattori impiegati erano statunitensi e britannici), ma rappresentavano quasi dei modelli prototipali.
D’altronde, l’energia prodotta non era poi così tanta: il contributo nazionale era di appena il 3-4%. E si sognava molto più in grande per il futuro.
La centrale elettronucleare Latina, in particolare, è stata costruita nella frazione di Borgo Sabotino: possedeva un unico reattore GCR-Magnox da 210 MWe di potenza a uranio naturale, moderato a grafite e raffreddato con anidride carbonica. Una volta entrata in funzione nel 1963 era la più potente d’Europa.
L’impianto venne messo in piedi dalla SIMEA S.p.A. (ENI) con tecnologia, come detto, inglese della società The Nuclear Power Group LDT; nel 1963 passò sotto Enel ma la sua attività era già ferma nel 1987 sulla scia del refrendum abrogativo. Da allora, come per la centrale del Garigliano, è stato garantito il mantenimento in sicurezza di strutture e impianti poiché l’affare nucleare è sempre molto delicato quando si tratta di tutela ambientale e sociale.
Nell’arco della sua vita, l’impianto ha prodotto circa 26 miliardi di kWh di energia elettrica.
Lo smantellamento – Dal 1991 in “custodia protettiva passiva“, la centrale è diventata propietà di Sogin (la nostra società deputata allo smantellamento degli impianti nucleari e alla gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi) nel ’99.
Allontanato il combustibile (e trasferito in Inghilterra per il riprocessamento) per procedere allo smantellamento dell’edificio reattore, è stato realizzato un laboratorio di dosimetria per aiutare gli operatori e, nel 2008, è stata completata la demolizione delle strutture interne di altri edifici. Sono stati, inoltre, effettuati lavori di adeguamento della stazione rilascio materiali per analizzare i prodotti delle attività di smantellamento prima che venissero rilasciati come rifiuti convenzionali e si è lavorato sulla linea di circolazione dell’acqua del mare.
Condotte superiori del circuito primario dell’impianto e pontile della centrale sono stati smantellati e demoliti nel 2011, anno in cui è stato emesso il decreto di Compatibilità Ambientale (VIA) con cui i Ministeri dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dei Beni e le Attività Culturali hanno definitivamente sancito il ruolo di Sogin.
Soltanto nell’arco del 2012 sono state prodotte 14.400 tonnellate di cemento derivanti da operazioni di smantellamento. Il che suggerisce l’imponenza di questo tipo di lavori: a livello fisico, dinamico, professionale, ma anche economico.
I rifiuti radioattivi – Quando si parla di nucleare bisogna ricordare che i rifiuti da trattare sono non solo quelli derivanti dall’esercizio della centrale, ma anche quelli provenienti dalle stesse operazioni di smantellamento. Per la centrale di Latina, questi materiali sono in attesa di trasferimento al futuro Deposito nazionale su cui, però, aleggiano ancora molti dubbi e sospesi poiché nessuno dei 67 potenziali candidati vuole l’impianto “in casa propria”. Soltanto quando questo sito sarà disponibile si potrà finalmente avviare la seconda e ultima fase che prevede lo smantellamento del reattore a gas grafite.
Al momento, perciò, è stata autorizzata soltanto la fase 1, con la grafite radioattiva costretta a restare stoccata in un edificio temporaneo sul posto. Un destino che, attualmente, accomuna tutte le centrali nucleari italiane.
Previsioni per il prossimo futuro – Stando a quanto affermato da Sogin, entro il 2027 dovrebbe essere raggiunto il cosiddetto brown field (bonifica e ripristino ambientale), per una spesa totale che – solo per questa prima fase – ammonta a circa 313 milioni di euro.