Cinque anni fa, a marzo 2015, parlando al Parlamento Italiano l’ex Presidente BCE Mario Draghi, nell’illustrare il positivo parere della BCE alla riforma delle popolari italiane, commentava come in Italia le allora 750 banche fossero troppe; “750 banche sono 750 consigli di amministrazione; ogni cda costa una certa cifra: tutto questo sistema è molto costoso e questi costi vengono pagati dai clienti delle banche.”
C’erano una volta in Italia le banche del territorio: in Germania sono ancora 1.700 tra pubbliche e private col 75% dei depositi retail
Per Draghi era evidentemente necessario un consolidamento del sistema bancario del Bel Paese.
Il discorso al Parlamento si inseriva in un contesto che vedeva da un lato l’avviata la riforma delle Banche Popolari approvata dal Governo Renzi poche settimane prima e dall’altro lo studio in fase avanzata per la rivisitazione del mondo delle banche di credito cooperativo.
Pochi mesi dopo avrebbe infatti preso vita la riforma delle Bcc, con la nascita di 2 grandi Gruppi Cooperativi (ICCREA e Cassa Centrale Banca) cui le circa 400 Bcc dovevano per legge aderire, in nome di una proclamata maggiore solidità finanziaria ma di fatto sacrificando buona parte della loro autonomia decisionale alla capogruppo, beneficiaria di un elevato potere di indirizzo.
Coevo con l’intervento di Draghi in Parlamento era uno studio della Federal Reserve, la Banca Centrale degli USA, che in maniera diametralmente opposta lanciava un allarme per la moria delle piccole banche negli States, da sempre considerate un propulsore economico fondamentale alla luce dell’importantissimo sostegno alle piccole e medie imprese del territorio.
“Dal momento che le piccole banche hanno un vantaggio comparato nei prestiti alle piccole imprese, il loro declino potrebbe pregiudicare il sistema del credito per diversi settori dell’economia” chiosava infatti la FED di Richmond.
Delle due l’una: chi aveva ragione? Ai posteri l’ardua sentenza, ma alla luce “dell’atto di amore” chiesto l’altro ieri dal Premier Conte al sistema bancario affinchè conceda assistenza finanziaria (peraltro assistita dalla garanzia dello Stato) alle imprese italiane in ginocchio per l’emergenza sanitaria, chissà che non sia stata più lungimirante la FED …
In ogni caso da allora il sistema bancario nazionale ha vissuto un consolidamento vistoso, maturato con aggregazioni e fusioni adottate in alterni momenti congiunturali, quando lo scenario ha visto la risoluzione delle 4 banche del Centro Italia (Carife, Carichieti, Banca Etruria, Banca Marche – 3 delle quali rilevate per 1 Euro da UBI BANCA), la LCA delle popolari venete (BPVi e Veneto Banca – regalate per 50 cent cadauna ad INTESA SANPAOLO (per altro foraggiata tramite lo Stato con poco meno di 5 mld a fondo perduto da recuperare in prededuzione dalla Lca, quindi con i soldi degli ex soci, ndr), il crac di MPS salvato in virtù dell’intervento diretto dello Stato, il commissariamento di Banca Carige (ricapitalizzato grazie al Fondo Interbancario ed a Cassa Centrale) e da ultimo quello di Banca Popolare Bari, tuttora in amministrazione straordinaria.
Da 750 del 2015, il numero degli Istituti bancari operanti in Italia è sceso agli attuali 450 (fonte tuttitalia.it).
E la fase di consolidamento non è finita, anzi con la crisi in corso causa emergenza sanitaria da Coronavirus, complice lo scivolone delle quotazioni di borsa e le difficoltà all’orizzonte per la preventivabile nuova ondata di default, il Sistema vedrà obtorto collo una accelerazione delle operazioni di fusioni ed aggregazioni, con conseguente ulteriore riduzione del numero degli Istituti.
Dopo la mossa di INTESA che ha deliberato di lanciare una OPS su UBI BANCA, sono ormai di pubblico dominio, stante il comunicato ufficiale dell’altro ieri, le ambizioni espansionistiche di CREDEM che ha posto nel mirino la partecipazione di controllo della Cassa di Risparmio di Cento, attualmente in mano alla locale Fondazione (https://www.ilsole24ore.com/radiocor/nRC_30.04.2020_20.23_77749973).
Ma nei corridoi delle varie banche locali si vocifera di altre numerose operazioni di aggregazione allo studio dei vari CdA, con incontri più o meno segreti, sotto la regia attenta della Capogruppo per quanto riguarda le bcc, oppure per ottemperare alla normativa di settore che impone alle fondazioni controllanti la riduzione della quota azionaria negli Istituti controllati (casse di risparmio) od ancora per rispondere agli inviti, più o meno pressanti, della vigilanza.
Fatto sta che il mondo bancario vivrà nei prossimi mesi una nuova fase di consolidamento che porterà per forza di cose il numero degli intermediari ancora a diminuire.
Un minor numero di intermediari sta a significare una minore concorrenza tra gli istituti, fattispecie che si trasferirà inevitabilmente sulle condizioni che tanto i risparmiatori quanto i prenditori riusciranno a spuntare.
Ma dal punto di vista delle imprese tutto questo non si limita ai costi finanziari richiamati da Draghi, bensì sta a significare un più difficile accesso al credito minando la loro stessa sopravvivenza, fenomeno stigmatizzato nell’alquanto singolare “atto d’amore” richiesto dal Premier pochi giorni or sono.
Ma l’Europa, con l’introduzione del bail-in e l’accelerazione verso l’Unione Bancaria, con una normativa di settore più stringente, ha gravato le banche, già alle prese con il peso delle sofferenze e con la sfida della globalizzazione, della digitalizzazione e del fintech, di maggiori costi di compliance regolatoria, con il rischio per i piccoli istituti di soccombere di fronte all’inevitabile evoluzione settoriale, pur nella consapevolezza che con esse viene sacrificata, all’altare della stabilità e solidità di Sistema, la loro preziosa e radicata assistenza finanziaria al territorio, con buona pace dei piccoli imprenditori.
Da questo assunto non vi è chi non veda come il monito della FED fosse oltremodo pertinente se non più lungimirante.
Ma il vistoso consolidamento del settore bancario è un fenomeno comune all’intera Europa? Cosa sta succedendo per esempio in Germania, conosciuta come il sistema economico più “bancarizzato” d’Europa ?
In Germania non ci sono soltanto i colossi Deutsche Bank e CommerzBank; una fitta schiera di banche pubbliche (540 tra Landesbanken e Sparkassen) e private (284 di cui 86 di diritto estero), oltre a 915 banche cooperative (Raiffeisen) si divide infatti il 75% del mercato retail (fonte Il Sole 24 Ore).
Il settore bancario tedesco ha vissuto un consolidamento lento e silente, coevo con quello italiano, fenomeno che tuttavia ha visto diminuire il numero totale degli istituti all’incirca di 200 unità, contro il quasi dimezzamento registratosi in Italia che a monte già evidenziava un schiera di banche di molto inferiore al totale di quelle tedesche.
In ogni caso per Draghi le 750 banche italiane nel 2015 erano troppe, ed ecco servite le riforme delle banche popolari e di credito cooperativo, con le risultanze sopra citate.
Sul finire del 1800 in Italia sono nate numerose casse rurali e artigiane, fondate da ispirati cittadini con la precipua mission di sconfiggere la piaga dell’usura e fornire aiuto e assistenza ai propri soci e clienti, al fine di migliorare le condizioni di vita degli stessi e dell’intera comunità di appartenenza.
Le banche popolari e le casse rurali (poi denominate banche di credito cooperativo) sono state un esempio edificante di public company, ossia di vera e propria banca del popolo (dove il voto era per testa e non per quota), un modello societario che ha consentito di traghettare i nostri territori fuori dalle problematiche di 2 guerre mondiali, della crisi degli anni 30 e di quella petrolifera degli anni 70, salvo poi vedere naufragare il loro destino non tanto per le caratteristiche intrinseche proprie della tipologia di azienda, bensì per il volere dei regolatori che ne hanno snaturato la struttura e peculiarità, sacrificandone di fatto le finalità sociali all’altare del capitalismo, giustificando l’iniziativa nell’asserita necessità di rispondere alle esigenze di maggiore solidità finanziaria e tutela del risparmio.
Adesso che stiamo combattendo una nuova guerra, contro un nemico invisibile e subdolo quale è il coronavirus, che sta comportando una crisi economica dai più definita come senza precedenti, si sente come mai prima l’esigenza di avere una banca al proprio fianco, una banca attenta alle esigenze dei clienti e pronta nelle risposte.
Ma si fa molta fatica a trovare un intermediario simile.
Lo Stato ha promesso garanzie statali a fronte di linee di credito che stentano ad arrivare, nonostante queste presidianti tutele ed oserei dire la decina di decreti a favore del sistema bancario che l’Esecutivo ha approvato negli scorsi anni.
Oggi però non bastano le richieste “di atti d’amore”, ancorchè proferite dai massimi esponenti governativi; servono i fatti, senza tentennamenti.
“Altrimenti facciamo noi”, parafrasando il motto di alcuni Sindaci italiani che hanno scritto nei giorni scorsi al Governo chiedendo più determinazione negli interventi e precisione nelle comunicazioni.
Siamo forse di fronte ad un periodo storico che richiede la nascita di nuove banche del territorio ? Si nuove, visto che le banche della specie oggi non si intravedono più, nonostante proclamino ancora di esserlo.
La crisi da pandemia richiede iniziative senza precedenti, ed il momento attuale ben potrebbe essere paragonato all’epoca in cui sono nate le prime casse rurali.
Già ma adesso, per poter restare autonomo e non dover aderire ad un Gruppo Cooperativo cui devolvere i poteri di indirizzo, serve un patrimonio non inferiore ai 200 milioni di euro.
A malincuore dobbiamo quindi constatare come “c’erano una volta le banche del territorio“.