(Articolo sulla parità di genere di Lidia Lazzaretto, responsabile politiche di genere Cgil Vicenza da Vicenza Più Viva n. 3 dicembre 2023-gennaio 2024, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Nonostante la parità salariale in Italia, ma anche in Europa, sia prevista per legge, la realtà ci restituisce un quadro ben diverso. Si parla di gender pay gap per definire proprio quella differenza di salario tra donne e uomini che vede le donne scontare una retribuzione più bassa.
A livello europeo, dieci anni fa la differenza media tra le retribuzioni di uomini e donne era pari al 16,4% e si è ridotta nel 2021 al 12,7%. Una contrazione pari a 3,7 punti percentuali. In Italia, invece, si è passati dal 6,5% di dieci anni fa al 5% registrato nel 2021.
Sembrerebbe un dato incoraggiante ma in realtà il divario è molto più ampio se consideriamo la parte variabile della retribuzione (stimato al 25% nel privato e al 17% nel pubblico). Un divario che sale progressivamente con l’avanzare del percorso di carriera (fino ad arrivare al 43% nei livelli più alti). Non solo, la discrepanza delle retribuzioni aumenta anche con l’aumentare del livello di istruzione: si passa dal 5,4% delle scuole professionali, al 10,4% dei non laureati, al 30,4% tra i laureati e arriva al 46,7% tra coloro che hanno specializzazioni di secondo livello.
Va notato che queste differenze incideranno sulla vita delle donne per tutto l’arco della loro vita; infatti, minori contributi significano pensioni più basse.
Ma quali sono le principali ragioni di questo divario?
I fattori determinanti sono vari: la precarietà; carriere più frammentate e discontinue visto che sono quasi esclusivamente le donne a farsi carico dell’attività di cura (pensiamo alla nascita e all’occuparsi dei figli, ma anche delle persone anziane); gli incentivi sulla produttività spesso legati a criteri sulla presenza; una maggiore aliquota femminile nelle mansioni e negli inquadramenti più bassi come nei settori dei servizi e della cura dove è più presente il lavoro povero, con basse retribuzioni, segno di una “svalorizzazione” sociale del lavoro delle donne.
Non dimentichiamo, poi, che quasi la metà delle nuove assunzioni che ha riguardato le donne negli ultimi due anni è a tempo parziale (soprattutto part time involontario, che significa sostanzialmente imposto e non certo scelto dalle donne).
Tutto questo ha chiaramente delle ripercussioni e discriminazioni nei percorsi di carriera e fa si che la difficoltà per le donne a superare quel famoso “tetto di cristallo” persistano tutt’oggi. Se poi allarghiamo lo sguardo sulla parità oltre il mondo del lavoro non c’è di che rallegrarsi.
L’EIGE, Istituto Europeo per la parità di genere (un’agenzia dell’Unione europea), elabora ogni anno il Gender equality index che sintetizza lo stato della parità di genere dei 27 stati membri dell’Unione europea in un unico dato, rappresentato dalla combinazione delle performance tracciate tramite 31 indicatori su sei dimensioni: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute.
Nel 2022, secondo il rapporto, l’Italia si colloca al quattordicesimo posto della classifica, con 65 punti su 100; circa a metà classifica, ma sotto la media europea che si attesta a 68,6 punti. Dal 2010 a oggi abbiamo guadagnando globalmente dieci punti, purtroppo, però, il percorso per la parità di genere è fermo al 2018.
Secondo questi indicatori l’Italia è indietro su quasi tutta la linea, ma gli ambiti in cui se la cava peggio sono lavoro e tempo. L’Italia è, infatti, ultima in Europa per quanto riguarda la parità di genere nel mondo del lavoro, con un punteggio di 63,2 (la media europea è di 71,76) e un livello di presenza femminile al lavoro tra i più bassi (68,1 contro 81,3). Un risultato davvero preoccupante che richiede attenzione, riflessioni e confronti, ma soprattutto azioni concrete.