Dopo troppi anni di silenzio, talora complice, finalmente si parla delle leggi razziali che lo Stato Italiano deliberò a partire dal 1938 e che ebbero nella Repubblica Sociale Italiana nel 1945 gli ultimi provvedimenti. Il silenzio che nel secondo dopoguerra coprì quei provvedimenti non ha alcuna giustificazione e fu di tutte le forze politiche che fecero pure fatica a reintegrare quei docenti universitari ebrei che erano stati privati della cattedra, mentre con maggiore facilità reintegrò quelli che avevano aderito al Manifesto della Razza pubblicato il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia e altri organi di stampa che, al capitolo 9, dichiarava: “Gli Ebrei non appartengono alla razza italiana”.
Il manifesto fu firmato dai dieci scienziati fascisti e ricevette l’adesione di altri 180 scienziati e di 140 intellettuali e uomini di cultura, fascisti e anche cattolici. (cfr. “Vicenzapiù” 25 gennaio 2018 e “Per la Storia” ottobre 2008n.15, reperibili sul web). Il caso poi di Gaetano Azzariti, che predispose le leggi razziali e fu poi addirittura Presidente della Corte Costituzionale, dal 1956 AL 1961, grazie alla riabilitazione pilotata dal Ministro della Giustizia, tal Palmiro Togliatti, che lo volle come collaboratore al Ministero, cfr. Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale, pubblicato dalla rivista «Contemporanea» del Mulino nel 2014, n. 4, pp. 577-608 .
In realtà la persecuzione contro gli Ebrei era iniziata fin dal 1934, cosa poco nota, allorché il capo di governo di allora Benito Mussolini operò per l’espulsione degli studiosi ebrei dall’Accademia dei Lincei, tra cui i grandi matematici Vito Volterra e Guido Castelnuovo, e nel 1938 ben sappiamo quale fu pure la sorte anche degli insegnanti elementari di origine ebraica.
Se il Manifesto fu accolto dalla stampa italiana con grandi titoli; “La Stampa” di Torino” in prima pagina sabato 8 settembre 1938 pubblicò la notizia dell’espulsione di tutti gli insegnanti ed alunni nati da genitori di origine ebraica, fu però più grave per i politici che sedevano nella Camera de Fasci e delle Corporazioni che tacquero, come tacquero i senatori di nomina regia, così la stampa, allineata al potere. Tra gli esponenti del fascismo durante la seduta del Gran Consiglio, conclusasi nelle prime ore della mattina del 7 ottobre 1938, l’unico gerarca che si pronunciò contro la “Dichiarazione sulla razza, approvata da Gran consiglio del fascismo il 6 ottobre 1938 e pubblicata sul “Foglio d’ordine” del Partito nazionale fascista il 26 ottobre 1938, fu Italo Balbo. Altri come Emilio De Bono e Luigi Federzoni espressero “riserve” e Cesare Maria De Vecchi, la cui moglie era ebrea, aveva disertato la seduta con una scusa.
Il silenzio per la politica antifascista, che era in “esilio” e che quindi poteva ben parlare, dichiarare fu pressoché totale. Nessuno dei politici: Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, don Luigi Sturzo) e quelli ancora presenti nel territorio italiano, presero le distanze da quanto operato dallo Stato Italiano. La Chiesa Cattolica con alcuni esponenti si era dichiarata d’accordo con il Manifesto sulla Razza (p. Agostino Gemelli), ma il pontefice Pio XI non fu per nulla consenziente ed era ben nota la sua posizione contro il totalitarismo nazionalsocialista che si era già espressa il 14 marzo del 1937 con l’enciclica Mit brennender Sorge. Il papa con chiarezza affermava: “Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua” […] e proseguiva:” a rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di « rivelazioni » arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza.”
Certo la situazione era difficile e il papa intervenne; nel IV volume della sua Storia della Chiesa, Giacomo Martina ricorda che Pio XI ripeté le condanne al nazionalismo esagerato e all’esaltazione della razza (parola che il Papa aborriva, preferendo piuttosto “stirpe”), davanti alle suore del Cenacolo riunite nel capitolo e provenienti da varie nazioni, davanti agli alunni di Propaganda Fide e davanti agli assistenti dell’Azione Cattolica. E dopo il discorso del 6 settembre ai pellegrini belgi, ma sempre la compiacente stampa, ormai allineata al fascismo non fece certo alcuna menzione.
Al silenzio colpevole di troppi che avrebbero potuto parlare, corrispose la parola di pochi e negli anni successivi con sempre maggior pericolo, tanto che il successore di Pio XI, il cardinal Eugenio Pacelli, divenuto papa, dovette agire con grande prudenza. Attesta il sopravvissuto all’Olocausto Marcus Melchior, il rabbino capo della Danimarca: “se il Papa avesse solo aperto bocca, probabilmente Hitler avrebbe trucidato molto più dei sei milioni di ebrei che eliminò, e forse avrebbe assassinato centinaia di milioni di cattolici, solo se si fosse convinto di aver bisogno di un tal numero di vittime”. Robert M. W. Kempner – in una lettera al direttore dopo che il periodico Commentary, nel 1964, pubblicò un brano del libro dello studioso dei genocidi di Gunther Lewy – rievocò la sua esperienza al processo di Norimberga per affermare: “Ogni mossa propagandistica della Chiesa cattolica contro il Reich hitleriano sarebbe stato non solo “un procurato suicidio” […], ma avrebbe affrettato l’esecuzione di ancor più numerosi ebrei e sacerdoti”.
Non fu solo una preoccupazione teorica. La lettera pastorale dei vescovi olandesi, che condannava “lo spietato e ingiusto trattamento riservato agli ebrei”, letta nelle chiese cattoliche olandesi nel luglio del 1942 provocò la durissima repressione contro gli ebrei che si erano convertiti al cattolicesimo, furono prelevati anche dai monasteri come avvenne per Santa Benedetta della Croce (Edith Stein) e sua sorella e avviati ai campi di sterminio.
Nella situazione italiana, ben contenti molti accademici di sostituire i colleghi discriminati e nelle scuole gli insegnanti in attesa di ruolo, non vi furono che prese di posizioni private, lo stesso Giovanni Gentile (cfr. Il Carteggio Gentile Kristeller tra studi umanistici e leggi razziali, ” Il Giornale Critico della Filosofia Italiana”, 94 (2015), pp. 104-122) che aveva sempre appoggiato il grande studioso tedesco dell’umanesimo italiano, in particolare di Marsilio Ficino, di origini ebraiche sia quando emigrò dalla Germania in Italia, divenne Lettore alla Normale di Pisa, sia quando costui fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti, ma il suo fu un appoggio privato e per un grande studioso, certo la figlia Emma del matematico Guido Castelnuovo, docente di scuola media, non ebbe alcun appoggio e fu sospesa dal servizio.
Oskar Kristeller fu licenziato ed espulso: Decreto d’espulsione del 7 settembre 1938 – firmato dallo stesso B. Mussolini e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 settembre. Lo studioso lavorò alla Biblioteca Vaticana per alcuni mesi in attesa dl visto per gli Stati Uniti e prima di partire scrisse a G. Gentile il 13 febbraio 1939 da Palermo, in procinto di lasciare l’Italia, diverrà professore alla Columbia University:” Nel momento di partire io posso assicurarLe che non dimenticherò mai gli amici italiani e che non mi pento affatto di essere venuto qua a suo tempo. Sono stati per me anni proficui e pieni di soddisfazioni fra le quali è forse la più grande quella di aver goduto la Sua stima e fiducia. E spero che la mia nuova sistemazione sarà tale da non dover ricordare il passato con amarezza e da permettermi di continuare i rapporti amichevoli cogli studiosi italiani.”
Presero posizione i due grandi filosofi italiana dell’epoca. Giovanni Gentile e Benedetto Croce. Il primo anche pubblicamente come dimostra Paolo Simoncelli, «Non credo neanch’io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei, (Firenze, Le lettere, 2013) addirittura nel 1943(28 maggio) durante la commemorazione alla Normale di Michele Barbi (un personaggio che incontreremo più avanti), rese omaggio al comune maestro Alessandro D’Ancona, di origini ebraiche con queste parole. “Noi che avemmo la fortuna di essere stati alla scuola del D’Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di vita, quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità della storia e del calore della fede vivente la Patria immortale; e abbandonarlo oggi all’oblio ci parrebbe empietà vile, poiché anche nella furia della lotta più aspra si può e si deve serbare la misura e osservare la giustizia”.
Benedetto Croce, ma non nella sua carica di senatore per censo dal 1910, prese posizione che ebbe eco internazionale. Il pensatore non si era recato insieme a Giulio Einaudi, Enrico de Nicola in aula quel 20 dicembre 1938 quando si approvarono le leggi razziali. Appartenevano ad una visione certo non fascista dello Stato e disertarono la seduta con la giustificazione, a detta dei soliti intellettuali politically correct, che lo fecero perché era impossibile una qualsiasi dialettica politica.
Certo Luigi Einaudi non praticava più le sedute del Senato da molti anni, ma come De Nicola avrebbe sicuramente potuto prendere pubblica posizione, certo che con difficoltà il Governo se la sarebbe presa con loro. Non lo fecero e non si debbono giustificare coloro che per vari motivi, forse anche per pavidità, non presero posizione a favore degli italiani di origine ebraica.
Benedetto Croce, aveva già preso posizione a favore degli ebrei perseguitati, seppur in modo indiretto quando iniziava a palesarsi la ventata di antiebraismo che stava cogliendo l’Italia ed; era intervenuto con una precisa presa di posizione culturale, pubblicando su “La Critica” del 20 gennaio 1938, pp.71-76 Un’epistola dell’umanista Antonio Galateo in difesa degli ebrei, nel testo latino che gli valse gli attacchi della stampa fascista. Per quella pubblicazione il 22 gennaio, da Milano, il giurista Mario Falco indirizzò invece al filosofo un biglietto di ringraziamento: “Carissimo e illustre Maestro, consenta che un ebreo La ringrazio per aver cercato il modo di dire – in quest’ora – una parola di umana simpatia per tutti gli ebrei. E creda sempre alla devota ammirazione ed all’affetto filiale”. La polizia intercettò il biglietto e ne fece una copia, che venne sottoposta a Mussolini.
Prese posizione a favore dei perseguitati ebrei sempre nello stesso anno, dapprima a livello più personale e indotto da una richiesta e poi il privato divenne pubblico, come vedremo. Il filosofo abruzzese il 5 agosto del 1938 rispose ad un appello sulla stampa svedese a favore degli ebrei che erano perseguitati nel Reich tedesco (la Germania e l’Austria erano unite dal 12 marzo 1938). La lettera di risposta al dottor Gillis Hammar, Direttore della Birkagårdens folkhögskjola di Stoccolma che aveva scritto al pensatore italiano il 20 luglio 1938, fu composta il 5 agosto 1938, poi ripubblicata nel 1943, ma con variazioni. (cfr. A. Capristo, “Oltre i limiti”. Benedetto Croce e un appello svedese in favore degli Ebrei perseguitati, “Quaderni di Storia, 35(2009), n.70, pp.145-180).
Lo studioso svedese, che aveva pubblicato l’11 luglio un articolo sul giornale “Svenska Morgenbladet” sul drammatico problema dei profughi ebrei dalla Germania e dall’Austria, si rivolgeva all'”Eccellentissimo maestro” e gli esponeva la sua proposta, quella “di accogliere in Isvezia degli ebrei perseguitati” e non solo loro, ma tutti “senza fare distinzione di classe, di razza o di religione”. Nel caso degli ebrei Hammar, che si dichiarava “non ebreo” affermava: “nelle persecuzioni agli ebrei io come svedese, come uomo, intravvedo il colpo delle aberrazioni vergognose del nostro tempo. Credo, che ogni non ebreo benintenzionato ha il dovere – se non l’obbligo – di aiutare agli ebrei perseguitati e di andargli incontro con spirito di giustizia […]. Ogni non ebreo, che si mostra indifferente dinnanzi alle persecuzioni ebree, si rende corresponsabile delle loro sofferenze. Cosa pensa Ella all’uopo? […] gradirei un benevolo cenno di risposta.
Croce rispose con queste parole:” Caro Signore, Può ben pensare che io, non solo per le mie teorie filosofiche e storiche, ma nella semplice mia qualità di uomo civile e liberale non posso se non provare ribrezzo per le odierne atroci persecuzioni degli ebrei in germani e in Austria. E già da cinque anni ho più volte scritto in loro difesa, con note polemiche e con richiami storici, e ho dato prova, come potevo, di interessamento e di affetto per i miei amici tedeschi di origine ebraica, ed ad uno di essi, costretto ad esulare dalla Germania – un valente filologo (Leo Spitzer) ho anche dedicato, per dichiarata protesta un mio libro (“Nuovi saggi su Goethe”). Ella parla a chi è nello stesso suo ordine di idee e di affetti. Disgraziatamente, ora anche in Italia è stata, a un tratto, iniziata un’azione che voglio augurarmi che non sia duratura. In Italia non vi è mai stato antisemitismo, e l’elemento ebraico ebbe una bella parte nell’opera del Risorgimento nazionale. Che cosa dirle, caro signore? Quel che accade innanzi ai nostri occhi stupiti in molta parte del mondo esce fuori da tutti i sentimenti e i costumi nei quali gli uomini della mia generazione furono educati e che tenevano sacri. L’accumularsi degli orrori e l’impossibilità di opporvisi in modo e adeguato sta inducendo negli animi una sorta di rassegnazione, che somiglia al torpore e all’indifferenza, E questa mi sembra la cosa più grave e mi riempie di tristezza. Auguro che Ella possa, in tutto o in parte, conseguire i fini generosamente umani che cerca di promuove in Isvezia. Mi abbia con saluti. Suo dev.mo Benedetto Croce.
Il 27 agosto Hammar chiedeva a Croce il permesso di pubblicare la sua lettera, ma diverse d vicende lo impedirono. Chaim Wardi (1901-1975), all’epoca lettore d’italiano all’Università ebraica di Gerusalemme, scrisse su incarico di Croce a Hammar e la lettera giunse nelle sue mani e fu pubblicata il 2 ottobre 1938 da “Palestine Post” (quotidiano in lingua inglese pubblicato a Gerusalemme). Solo due mesi dopo se ne ebbe eco. Il giornale “Il Tevere”, diretto da Telesio Interlandi, riprese dal giornale palestinese la notizia, e attaccò violentemente Croce con il titolo “Il chassidismo di Benedetto Croce”, accusato di antipatriottismo e l’articolo che riproduceva, mal tradotta, la lettera del filosofo, chiudeva con le parole. “Dovevamo far sapere ai nostri lettori che Benedetto Croce non ha perduto nemmeno questa occasione per schierarsi coi nemici dell’Italia.”
Dell’articolo de “Il Tevere” si ebbe eco sulla stampa straniera. Il 24 dicembre la notizia venne ripresa dal quotidiano francese “Le Temps” di Parigi, che a p. 2, nella sezione Nouvelles de l’étrangere, sottosezione Italie, gli dedicò un trafiletto intitolato: Une attaque contre Benedetto Croce e nella stessa data sulla tedesca “Frankfurter Zeitung” un articolo con il titolo “Ein Fall Benedetto Croce”. Ma nulla di più
Il 25 dicembre del 1938 annotava il Croce nei suoi Taccuini: “Vedo nei giornali italiani accuse di antipatriottismo e anti-italianità per una lettera che scrissi l’estate scorsa a un personaggio svedese contro le persecuzioni antiebraiche, lettera che deve essere stata pubblicata in questi giorni in Isvezia. Ma sono contento di averla scritta, cioè di aver fatto quel pochissimo che l’occasione mi dava il modo di fare.”
Il filosofo non era certo della pubblicazione della lettera sulla stampa svedese e non aveva letto direttamente neanche l’articolo del «PalestinePost».
A Croce giunsero anche alcune attestazioni di italiani che plaudirono alla sua lettera, tra questi scrittore e giornalista americano Henry Furst (1893-1967), che risiedeva a Villa Torre a Recco (in provincia di Genova) e i Angiolo Tursi (1885-1977), ma furono corrispondenze private e non si ebbe più eco pubblica.
Altro non si scrisse in Italia, era meglio tacere anche in questo caso.
Croce con la sua autorità e i contatti internazionali aiutò molti studiosi italiani di origine ebraica, tra questi Arnaldo e Attilio Momigliano, Antonello Gerbi, Enzo Tagliacozzo, Roberto Lopez e altri.
Solo nel marzo 1943 Croce pubblicò la lettera a Hammar nel secondo volume della raccolta “Pagine sparse” nella sezione «Documenti storici sottosezione XIII: La questione ebraica nel mondo, n. 2. Il n. 1 era la traduzione dall’inglese di un testo inviato all’«American Hebrew and Jewish Tribune» e da questa pubblicato il 7 settembre 1934. Fu un atto coraggioso, era il momento in cui finiva il governo Mussolini ed iniziava una “nuova storia d’Italia”, dove anche diversi “vicini” al fascismo cambiarono rotta, come il vicentino Mario Dal Pra.
Ricordiamo solo che Croce nella ventata di antiebraismo che stava cogliendo l’Italia era intervenuto con una precisa presa di posizione culturale, pubblicando su “La Critica” del 20 gennaio 1938, pp.71-76 Croce Un’epistola dell’umanista Antonio Galateo in difesa degli ebrei, nel testo latino che gli valse gli attacchi della stampa fascista. Per quella pubblicazione il 22 gennaio, da Milano, il giurista Mario Falco indirizzò invece al filosofo un biglietto di ringraziamento: “Carissimo e illustre Maestro, consenta che un ebreo La ringrazi per aver cercato il modo di dire – in quest’ora – una parola di umana simpatia per tutti gli ebrei. E creda sempre alla devota ammirazione ed all’affetto filiale”. La polizia intercettò il biglietto e ne fece una copia, che venne sottoposta a Mussolini.
Nel secondo dopoguerra il silenzio fu pressoché totale, e il problema antiebraico fu riconosciuto solo nell’ambito dell’Olocausto, poco o nulla di disse delle leggi razziali italiane. Solo la polemica sollevata dal libro di Cesare Merzagora, “I pavidi” Prefazione di B. Croce, Istituto Editoriale Galileo, Milano, 1946, suscitò qualche polemica, ma fino a tempi recentissimi il silenzio s’impose. Ben lo disse Vittorio Foà nel suo volume “Passaggi”, (Torino Einaudi, 2000), ricordando i suoi amici “illustri antifascisti”, di cui però non ha il coraggio di fare i nomi, mettendo il dito sulla piaga: a parte Croce e pochissimi altri, “nessuno aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un’immonda violenza… I nomi che mi vengono subito in mente sono quelli della mia parte politica, taciturni come tutti gli altri”._
Ora è tempo di uscire anche dalla retorica del ricordare le leggi antirazziali che servono più all’ideologia che non a prospettare una dimensione umana rispettosa proprio dell’umanità che è in ciascuno di noi. Uscire da ciò, significa anche uscire da quella forma di politica, il totalitarismo, tipica del novecento e viva ancor oggi, che a partire dall’ottobre/novembre 1917 ha devastato l’Europa e parte del mondo.
Con l’insegnamento della storia e la sua non strumentalizzazione e una vera buona volontà dovremo riuscirci.
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