«Assistere ad un parto è un atto di fede. Puoi consultare tutti i manuali di medicina e ostetricia ma non sempre uno più uno fa due. Ci sono cose che sono al di sopra del nostro controllo. Una forza sovrana. Un travaglio può sembrare lento, faticoso ma poi tutto segue la sua strada, prende la sua forma e il bimbo nasce sano e bello».
Chiara Tivelli, 26 anni, ostetrica all’ospedale San Bortolo di Vicenza, conosce la responsabilità del suo ruolo. Ne è cosciente e ne ha fatto sua ogni sfumatura.
La prima cosa che fa quando entra in sala parto è presentarsi. «Do alla futura mamma un nome per potermi chiamare: all’università lo insegnano il primo giorno e poi basta – spiega -. In reparto cerco di non fermarmi a prendere il caffè, regalo un po’ di tempo in più alle future mamme, mi siedo sui letti, parlo con loro. Curo la postura, la gestualità. Niente braccia sui fianchi. Osservo. Nei momenti critici cerco di non essere giudicante con lo sguardo e le parole. Operazione molto difficile».
Ogni parto è diverso dall’altro, chi è già mamma lo sa. Entrano in gioco gli elementi più disparati. Poi ci sono i racconti di amiche, madri, conoscenti: alcuni da manuale, altri da film dell’orrore.
La cosa certa è che a mettere al mondo una creatura, in sala parto, non è solo la futura mamma. In qualche modo contribuiscono anche il papà e l’ostetrica. Non per sminuire i futuri padri, ma in particolare il ruolo di quest’ultima è delicatissimo: dalla sua professionalità, sensibilità, empatia, dipende buona parte del risultato. Si fa parte di una grande squadra e ognuno deve giocare bene il suo ruolo.
«La prima testina che ho toccato e accompagnato alla vita è stata quella di Leonardo, ero in tirocinio, nel gennaio del 2016 – racconta Chiara -. L’emozione fu grandissima: lì capii davvero che l’ostetrica è il tramite tra la partoriente e il marito, tra lei e il bambino; poi però i ruoli prendono altre forme e magari diventa il marito il tramite tra l’ostetrica e la futura mamma. È un lavoro di “tessitura”». Una trama a quattro fili. «Il primo parto in assoluto che osservai fu invece un “disastro”, sbagliai tutto. Ero al secondo anno di università, mi sentii guidicante.
Noi ostetriche non dobbiamo essere psicologhe. È una buccia di banana sulla quale prima o poi tutte scivolano. Non bisogna entrare nel giudizio. Il nostro è un supporto empatico ed emotivo, non psicologico».
La nascita, per un’ostetrica è sinonimo di cura, pazienza «L’ostetricia è l’arte dell’attesa. Io mi sento onorata di poter sedere, stare in piedi o inginocchiata di fianco ad una mamma e ad un papà e di attendere con loro. La coppia attende che un’embrione si attecchisca – il seme -, che diventi feto – il germoglio – che viva tutta una gravidanza – il fiore – e che si avvicini al travaglio, che i tempi siano maturi, che ci sia alternanza tra dolore e riposo come in una danza e che nasca – il frutto- trovando piano piano il suo nome e il suo posto nel mondo. Questa è la meraviglia della vita. Un’affascinante meraviglia».
Il sogno di Chiara da bambina era di partire come medico di Emergency. Il desiderio è ancora lì, riposa in un angolino. Nel 2017, in attesa del concorso in ospedale, ci andò vicino: trascorsi due mesi in Costa D’Avorio con il progetto “Alépé” delle suore Dorotee di Vicenza: «Sola con un paio di guanti mi trovai in difficoltà. Non c’erano medici, strumenti, supporti elettronici, comodità italiane.
Ho capito che non c’è differenza tra la mamma africana che perde il quarto figlio e l’italiana che non potrà mai vedere crescere la sua prima creatura. L’intensità del dolore e della sofferenza, lo strazio, sono gli stessi. In Africa ho visto mamme con valore 3 di emoglobina in piedi a badare agli altri figli. Ho riflettuto sugli sprechi, sulle certezze del nostro benessere. Mi sono resa conto delle fortune, di quanto diamo tutto per scontato. La vita e la morte lì sembrano avere un valore diverso».
«Ho capito che chiedere ad una mamma africana o ad una mamma italiana il permesso di fare un’ecografia vaginale assume lo stesso valore, la stessa importanza – continua -. Apprezzano entrambe, alla stessa maniera. La costruzione dell’empatia parte della piccole cose qui come in ogni altra parte del mondo».
In Costa d’Avorio Chiara ha anche dato il suo contributo «soprattutto per quanto riguarda la rianimazione neonatale che non era curata adeguatamente» spiega.
«La creazione – continua la giovane professionista -, è in continuo divenire e ognuno di noi ne è artefice. Ogni volta che nasce un bambino e io sono lì ho dato il mio modestissimo contribuito alla creazione.Cerco di farlo al meglio che posso, come mi hanno insegnato gli scout. Ogni coppia che mette al mondo partecipa attivamente alla sua parte di creazione rifrangendo la luce divina, dando un’angolazione dei raggi luminosi ricevuti sempre diversa, con un nome sempre nuovo».
Vita e morte sono legati. «Mi è capitato di dover assistere a parti indotti per gravi malformazioni del feto. Io credo di aver assistito alla vita anche in quei momenti. So per certo quello che farei io nella mia vita di coppia ma “chi sono io per giudicare? Ce lo insegna papa Francesco. Credo che portare un’assistenza empatica in quei casi sia molto importante, forse ancora più importante».