Ci sono troppe “emergenze” nel nostro paese: le stesse da decenni

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Operatori della... Scuola italiana emergenze
Operatori della... Scuola italiana emergenze

Ci sono troppe “emergenze” nel nostro paese. O quello che viene fatto passare per emergenza. Esiste quella relativa ai migranti che viene spesso (o sempre) legata alla questione sicurezza. Esiste quella climatica che si evidenzia ad ogni evento atmosferico con inondazioni, frane ecc. Quella delle  nascite in forte calo. Quella della Magistratura per scandali o quando non fa quello che vorrebbe il governo. O quella “rifiuti” specialmente a Roma (dove è un’emergenza che, da decenni, ricompare puntualmente). Per non parlare degli zingari considerati un pericolo per “noi e i nostri figli”… E poi ci sono le “emergenze” meno pubblicizzate, quelle che fanno meno notizia ma che “corrodono” la vita di ognuno. Il lavoro, per esempio, l’evasione fiscale, le strade pericolose, la povertà crescente, i salari insufficienti, la sanità, la scuola 

In Italia le emergenze sono continue. Ogni problema, anche quello più incancrenito si “risolve” con azioni di contenimento, con soluzioni temporanee  che tendono a tamponare qualche falla fino alla prossima emergenza (che puntualmente arriva). Non può essere questa la maniera di risolvere le questioni e i problemi. Perché tutte le “nostre emergenze” non sono crisi dovute a fatalità o dovute a condizioni eccezionali e temporanee.

Sono situazioni consolidate, dovute a condizioni abituali che si trascinano da decenni. Sono sempre le stesse questioni che peggiorano, magari, ma sono quelle che c’erano trent’anni fa e che, puntualmente venivano tirate in ballo quando serviva (e, ancora oggi, serve) sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle condizioni endemiche di disagio e di pericolo che si vivono quotidianamente nel nostro paese. Condizioni aggravate dalla mancanza di qualsiasi pianificazione e progetto. 

Si prenda, ad esempio, la questione lavoro. 

La sicurezza sempre più precaria con 363 morti nei luoghi di lavoro (che diventano 730 se si considerano anche i decessi in itinere e sulle strade) non è un’emergenza ma una condizione abituale che non fa notizia anche se peggiora di anno in anno. La questione salariale con retribuzioni da fame a immigrati e precari “autoctoni” comunque sfruttati in maniera inaudita a pochi euro l’ora a fronte di aumento di fatica e di condizioni di servitù non sono da considerarsi certo “un’emergenza”, un caso eccezionale. È, da troppo tempo, la normalità subita e accettata perché “è così”, perché “non se può fare a meno”, pena non essere “competitivi”? E questa normalità non fa più notizia anche se è qualcosa che si vive ogni giorno e che è in palese contrasto con i principi e i valori costituzionali. 

Si può fare qualcosa? Si propongono, forse, soluzioni solide e strutturali? No di certo. Quando va bene si mettono in campo palliativi che non curano la malattia. Non esiste nulla di pianificato ma interventi temporanei e costosissimi che non risolvono la questione ma la stabilizzano in una pessima situazione che è sempre a danno di chi è costretto ad accettare lo sfruttamento e la precarietà. La “cura” che viene proposta (o imposta) è solo propaganda. 

Anche “l’emergenza migranti”, che riempie le prime pagine dei mezzi di informazione, si limita alle “frasette” e ai sorrisetti trucemente sardonici del ministro dell’interno che ci fa credere che il problema si possa risolvere chiudendo i porti alle ONG e a qualche decina di disperati, mentre altre centinaia o migliaia arrivano per conto loro, per terra e per mare, dimostrando come la politica del mostrare i muscoli sia soltanto pura propaganda di una campagna elettorale infinita.

Alla fine abbiamo paura dei poveri, di quelli che scappano da guerre e fame e non di chi li ha resi tali rubando le ricchezze della loro terra e fomentando guerre e fame. A proposito, visto che si parla tanto della disastrosa situazione in Libia (dalla quale partono i cosiddetti “clandestini”), sarebbe giusto ricordare che il partito del quale è capo l’attuale ministro dell’interno, nel marzo del 2011, faceva parte del governo e che, quindi, fu complice dei bombardamenti e della guerra che portò all’abbattimento del regime di Gheddafi e al suo assassinio.  E che questo scatenò, in Libia, quel caos che è tra le principali cause della situazione odierna. 

Non è, forse, questa maniera di affrontare qualsiasi problema come fosse un’emergenza, qualcosa di crudelmente inutile e inadeguato che denota poca o nessuna volontà di risolvere i problemi ma di mantenerli “vivi e vegeti” perché così si otterrà maggiore consenso e ci si potrà accaparrare tanti voti? 

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.