Il costo ambientale del nostro mangiare. “A km zero”, sono i prodotti commercializzati nella stessa zona di produzione. Già, ma i ristoranti cittadini che espongono quell’insegna dove coltivano o allevano? Nel retrobottega? – si legge nella nota/articolo su La Ragione che pubblichiamo a firma dell’Aduc (qui altre note dell’Associazione per i diritti degli utenti e consumatori su ViPiu.it, ndr) –
Anche gli agriturismi vantano l’offerta di prodotti “a km zero”, ma sarebbe opportuno concentrarsi su ciò che si mangia invece che della vicinanza della coltivazione; occorre, infatti, considerare l’impronta di carbonio (carbon footprint), cioè la quantificazione di tutte le emissioni di gas ad effetto serra, lungo tutto il ciclo di vita del prodotto, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento finale. Istintivamente, si considera importante l’impatto carbonico dei trasporti ma questi, per la maggior parte degli alimenti, non hanno rilievi significativi.
Allora dove vengono le “emissioni” del nostro cibo?
Vediamo.
Ci aiuta a capirlo una delle più importanti analisi sui sistemi alimentari globali effettuata dai ricercatori Joseph Poore e Thomas Nemecek, pubblicata su “Science”.
Gli autori hanno esaminato i dati di oltre 38.000 aziende agricole commerciali in 119 paesi. L’intuizione più importante di questo studio è relativa alle enormi differenze nelle emissioni di gas serra dei diversi alimenti. Nel complesso, gli alimenti a base animale tendono ad avere un’impronta carbonica più elevata rispetto a quelli a base vegetale. Per la gran parte degli alimenti, la più rilevante parte delle emissioni di gas serra deriva dal cambiamento di uso del suolo e dai processi nella fase agricola. Le emissioni nella fase agricola includono processi come l’uso di fertilizzanti, sia organici che sintetici; la fermentazione enterica (produzione di metano durante il processo digestivo degli animali). Insieme, rappresentano l’82% dell’impronta carbonica.
Tutti i processi nella catena di approvvigionamento dopo che il cibo ha lasciato l’azienda agricola – lavorazione, trasporto, vendita al dettaglio e imballaggio – rappresentano una quota minore di emissioni. Preso in esame il totale delle emissioni carboniche alimentari, il bestiame e la pesca ne rappresentano il 31%, la produzione agricola il 27%, l’uso del suolo il 24% e le catene di approvvigionamento il 18%. La trasformazione alimentare (conversione dei prodotti dell’azienda agricola in prodotti finali), il trasporto, l’imballaggio e la vendita al dettaglio richiedono tutti input di energia e risorse. Molti presumono che mangiare locale sia la chiave per una dieta a basse emissioni di carbonio, tuttavia, le emissioni dei trasporti sono spesso una percentuale molto piccola delle emissioni totali del cibo: solo il 6% a livello globale.
Una particolare attenzione meritano i rifiuti alimentari: un quarto delle emissioni dalla produzione alimentare finisce come spreco, sia da perdite della catena di approvvigionamento sia da parte dei consumatori. Imballaggi durevoli, refrigerazione e lavorazione degli alimenti possono aiutare a prevenire gli sprechi alimentari.
Complessivamente, il cibo è responsabile di circa il 26% delle emissioni globali di gas serra e il 78% dell’eutrofizzazione globale degli oceani e delle acque dolci è causato dall’agricoltura.
Per ridurre questa percentuale avremmo bisogno di diverse opzioni: cambiamenti delle diete; riduzione degli sprechi alimentari; miglioramento dell’efficienza agricola e tecnologie che rendono convenienti le alternative alimentari a basse emissioni di carbonio (“Our World in Data”).
Garantire che tutti nel mondo abbiano accesso a una dieta nutriente in modo sostenibile è una delle più grandi sfide che dobbiamo affrontare per limitare il cambiamento climatico.
(Articolo pubblicato su LaRagione del 17 Maggio 2022)
Primo Mastrantoni, Aduc