Ospitiamo e sottoponamo all’attenzione dei lettori, di Intesa Sanpaolo e del Governo un interessante scritto del dr. Riccardo Federico Rocca, che da tempo ci onora della sua firma e che fa parte del milanese studio legale Rocca, che, nato nel 1948 occupandosi fin dall’inizio di diritto civile e societario, a partire dal 2007 si è specializzato in diritto finanziario e, in particolare, nel settore della tutela degli investitori danneggiati da false comunicazioni rese da società di capitali. Il direttore
Lo scorso venerdì 27 aprile a Torino nel corso della propria Assemblea ordinaria, Intesa Sanpaolo [ISP] a fronte di una precisa domanda di un azionista che lamentava l’enormità della dote di sette miliardi di euro erogatale dallo Stato a carico di tutti i contribuenti, ha letteralmente risposto come di seguito.
«È del tutto improprio e fuorviante parlare di “dote”, quasi si trattasse di un regalo, di fronte ai rilevantissimi oneri organizzativi e operativi di cui Intesa Sanpaolo si è fatta carico nel contesto dell’operazione e, ancor prima, di fronte al fatto che Intesa Sanpaolo ha consentito di evitare che lunedì 26 giugno 2017 gli sportelli di quelle banche (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ndr) non potessero essere riaperti, i depositanti non potessero disporre dei loro depositi, i dipendenti perdessero il posto di lavoro, tutti i creditori chirografari venissero irrimediabilmente pregiudicati dal default e il sistema (in primis quello bancario e subito dopo lo Stato Italiano) dovesse farsi carico dell’intera situazione in dissoluzione. I cosiddetti “rami in bonis”, cui si riferisce la domanda, erano un insieme di attività, passività e rapporti giuridici che comunque presentavano notevoli criticità: si pensi al fatto che Intesa Sanpaolo si è fatta carico di gestire e far fronte al contenzioso in essere al 26 giugno 2017 (sono state escluse quelle che coinvolgevano azionisti e obbligazionisti subordinati delle ex Banche Venete, in ossequio a quanto previsto dalla normativa europea sugli aiuti di Stato): anche questo è un peso (di grande rilevanza per le stesse strutture della Banca) che è stato accettato al solo fine di sollevare dal relativo onere le Liquidazioni Coatte».
Risposta che ne dimostra la coda di paglia poiché è facile osservare che “i rilevantissimi oneri organizzativi e operativi di cui Intesa Sanpaolo si è fatta carico” in nessun caso possono valere sette miliardi di euro.
Tutti oggi riconoscono che il disastro delle due ex banche popolari venete sia in buona parte originato dalla totale assenza di controlli e interventi da parte degli organismi pubblici a ciò preposti, e in specie, Banca d’Italia, Consob e, per taluni aspetti, la Procura di Vicenza e la Procura di Treviso. E che per evitare danni peggiori, lo scorso giugno lo Stato sia intervenuto mettendo sul piatto ben sette miliardi di euro. Importo più che adeguato a chiudere la partita, se solo fosse stato destinato a risolvere i problemi piuttosto che arricchire gli amici. Invero, Intesa San Paolo [ISP] che la stampa filogovernativa dipinge come il salvatore della Patria, fin da subito ha messo in chiaro di non avere alcuna intenzione di ricoprire tale ruolo, sicché i 19 miliardi di euro di NPL sono oggi in carico alla SGA – ovvero allo Stato – e i due miliardi di debiti risarcitori nei confronti degli investitori truffati vagolano nel buio. Laddove ISP si è limitata a prendersi carico di 28 miliardi di crediti in bonis, dei quali la maggior parte rappresentati da mutui immobiliari ipotecari, e la restante parte da affidamenti che, stante le informazioni che mi pervengono da varie fonti, non vengono rinnovati a scadenza con l’immediata richiesta di rientro a prescindere dal merito creditizio dell’affidato. Crediti il cui acquisto non ha comportato per ISP l’esborso di liquidità alcuna, ma la semplice assunzione di debiti per un importo di ammontare equivalente nei confronti dei depositanti.
Più che giusto, pertanto, che attivi e passivi di corrispondente ammontare siano stati rilevati da ISP al prezzo di un euro. Nessuna motivazione economica, giuridica o morale può invece giustificare il regalo dell’ex ministro Pier Carlo Padoan a tutto carico dei contribuenti italiani a ISP di ben 4,785 miliardi di euro esentasse corrispondenti a oltre 7 miliardi di euro lordi. I circa diecimila dipendenti delle due ex banche popolari venete costavano complessivamente circa 600 milioni di euro annui, quindi con due miliardi di euro si potevano pagare gli stipendi pieni per tre anni a tutti quanti: avanzano pertanto ben cinque miliardi di euro che il prossimo Governo, di qualsiasi colore e orientamento politico sia, dovrà richiederle indietro, poiché consumatori e partite Iva, commercianti e artigiani, non potranno tollerare il preannunciato aumento di un solo millesimo delle vigenti aliquote prima di tale restituzione.
Per inciso, proprio la misura di tale importo di sette miliardi rende davvero cialtronesco da parte del sottosegretario Pier Paolo Baretta & C. l’avere stanziato la miseria 100 milioni di euro suddivisi in quattro anni [sic] per rimborsare l’universalità delle vittime di truffe già accertate in sede giudiziaria da diverse sentenze della Corte di Appello di Venezia. Che nel motivare le conferme delle sanzioni applicate ai sindaci/dirigenti/amministratori delle ex popolari, illustrano coram populi le tecniche fraudolente da quelle poste in essere per ingannare gli investitori. Cento milioni che rappresentano, a tutto dire, neppure l’1,5% della dote versata pronta cassa dal ministro Padoan a ISP il 26 giugno 2017.
Per allontanare la vicenda dall’attenzione del pubblico a ISP sarebbe sufficiente destinare un paio di miliardi dei cinque in soprannumero ricevuti per chiudere la partita con gli investitori truffati, potendo così trattenerne in tutta sicurezza i restanti tre. È troppo chiedere un pizzico di lungimiranza a chi ha l’ambizione di diventare la prima banca d’Europa?