Clamoroso su internet, Il Fatto: il giornalismo è buono

434

I giganti Apple, Facebook e Google investono e annunciano iniziative a sostegno dell’editoria tradizionale: vacilla il mito dell’informazione dal basso. E non è solo colpa delle “fake news”

Apple ha fieramente siglato un accordo per l’acquisizione di Texture, una piattaforma che garantisce accesso a oltre 200 riviste previo abbonamento. Google ha appena annunciato un rinforzo delle proprie iniziative contro le fake news in supporto al “giornalismo”, mentre Facebook – prima di trovarsi al centro del ciclone Cambridge Analytica m- già spaziava tra un progetto e l’altro dedicato all’informazione. Stai a vedere che alla fine, il tanto vituperato giornalismo, a qualcosa serviva (nella foto l’Apple store di Texture, la “Netflix delle riviste”)..


Nell’aprile del 2017, la squadra di sicurezza di Facebook rilasciava un rapporto nel quale avvisava, senza giri di parole, che la politica stesse sfruttando la piattaforma per operazioni mirate alla distorsione del sentimento politico, locale e non, a scopi strategici. Leggere alla voce: propaganda. Il rapporto non fece alcun clamore, eppure, c’era già tutto. La propaganda non è niente di nuovo, ma occhio perché, si leggeva “leader e pensatori, per la prima volta nella storia, possono raggiungere (e potenzialmente influenzare) un pubblico globale attraverso i nuovi media”.

Venne il Russiagate e il mondo si svegliò: molteplici attori vicini al Cremlino avevano mosso una macchina da guerra dell’informazione che sarebbe stata capace (o quanto meno aveva le potenzialità) di influenzare le ultime presidenziali americane e altre elezioni altrove. La già iniziata mobilitazione anti-fake news, da quel momento, non è stata più solo un’opzione. Preso il toro per le corna, le piattaforme sono partite fornendo strumenti di controllo più adeguati, cambiando persino gli algoritmi. Anche il recente scandalo di Cambridge Analytica, società che avrebbe sfruttato i dati sottratti agli utenti di Facebook grazie a un’applicazione apparentemente innocua, oltre il limite che gli sarebbe stato consentito, ha a che fare con la disinformazione. Quei dati sarebbero stati sfruttati per una profilazione al dettaglio da usare, guarda un po’, per indirizzare della propaganda.

A giorni dallo scoppio della bomba, il Ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha ipotizzato che forse, per quanto riguarda il rapporto pubblicità e politica, le piattaforme dovrebbero avere più regolamentazione, come quella a cui già devono rispondere sia la stampa, che la televisione.

Sembra proprio che le più grandi potenze tecnologiche, neanche troppo timidamente, stiano volteggiando intorno al giornalismo professionale in una danza di corteggiamento.

Eddy Cue, senior VP di Apple, commentando l’acquisizione del “Netflix delle riviste”, Texture, ha parlato di “impegno per un giornalismo di qualità e fonti affidabili”. E l’ultimo aggiornamento dell’App Store stesso, il negozio delle applicazioni della mela, è pieno di schede editoriali, come un magazine.

Facebook ha da tempo attivo un progetto dedicato al giornalismo, uno spazio di collaborazione tra l’azienda e gli editori, dal quale è emerso anche un investimento da 3 milioni di dollari per incentivare gli abbonamenti digitali delle testate locali. Negli Stati Uniti una sperimentazione è dedicata a una sezione per le notizie locali, che gli utenti chiedevano con forza: il giornalismo locale, l’avamposto storico dell’informazione.

La ricerca dell’informazione professionale in contrapposizione a quella cialtrona, e peggio, contro quella strategica (di organizzazioni e politica), non passa inosservata.

E infatti, ha pensato Rupert Murdoch, sai che c’è? Che ce le pagassero loro (le piattaforme) le notizie di qualità. Secondo quanto riportato dalla BBC, per il magnate gli editori non vengono ricompensati adeguatamente perché non esiste “nessun modello di abbonamento che riconosca veramente l’investimento e il valore sociale del giornalismo professionale”.

Una provocazione, ma mica poi tanto. L’investimento è quel pezzo d’ingranaggio fondamentale che viene sottovalutato. Come trovarsi con due viti in più in mano, una volta finito di montare l’armadio, e scoprire che alla lunga, quelle due viti servivano a non far crollare l’anta, anche se sembrava reggere.

“Il giornale è sicuramente una struttura antiquata, ma in quella gerarchia, c’era qualcosa da salvare. C’erano soldi investisti in persone che potevano fare inchiesta, spostandosi o meno, impiegando del tempo – commenta Paolo Mieli, giornalista e saggista – C’era il momento fondamentale in cui si crede in qualcuno, che viene infatti pagato e assunto”. Quello snodo in cui “qualcuno investe nel lavoro di una persona sapendo che ci guadagnerà. Se ho potuto fare il giornalista è perché esistevano dei signori ricchi che investivano – continua Mieli, già direttore de La Stampa e de Il Corriere della Sera – A chi fa i conti nell’editoria, non viene ancora oggi riconosciuto un ruolo fondamentale”. E su questo, è stata la categoria stessa, a inciampare: “Per lungo tempo abbiamo rappresentato l’imprenditore che pagava come un ?purtroppo’”. Certo, sempre sperando che l’editore “non usi il proprio mestiere per fare ricatti”.

Il giornalismo, d’inciampi, ne ha fatti parecchi: come quando, invece di capire quali equilibri la rete stesse cambiando davvero, era lì a guardarsi l’ombelico, dedicando energie a quello che, pensava, gli avrebbe sottratto il ruolo sociale, il citizen journalism. E invece, è successo che in rete sono arrivati i professionisti dell’informazione, a far quello che già facevano prima, ma con più mezzi, cioè la propaganda. Mentre i cittadini non hanno rubato il posto proprio a nessuno (anzi, hanno fornito ancora più fonti da verificare).

“Nel film di Spielberg The Post, quello che emerge, oltre al valore dei giornalisti, è soprattutto il ruolo della proprietà. Katharine Graham, signora dell’alta società, rischia tutto, perché sa che il suo prodotto, il giornale, diventerà un atto di eccellenza – ribadisce Mieli – Il dramma di internet è che non ha selezionato figure del genere e che anche quando l’ha fatto, come nel caso di Zuckerberg, le ha selezionate in base a criteri che non afferivano al mondo dell’informazione, ma della tecnologia”.

Quel grande impero, ora, sta facendo con il giornalismo quello che l’industria musicale ha fatto con l’online, ma a parti invertite: ha cercato di sottovalutarlo, per poi chiedergli una mano. Ché la rottamazione, a tutti i livelli, difficilmente premia, a differenza dell’integrazione. Se anche il giornalismo lo capisse, sarebbe fatta.

di Diletta Parlangeli, da Il Fatto Quotidiano