Cold case: l’omicidio Fioretto e l’alba della mafia in cravatta

348
L'avvocato Fioretto con la moglie
L'avvocato Fioretto con la moglie

(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 8 di fine maggio, prima della individuazione del possibile killer di cui abbaino scritto, e sul web per gli abbonati).

Nel ‘91 non esisteva ancora la DDA e, soprattutto, non c’era ancora sentore del progressivo
crescere delle infiltrazioni malavitose nell’economia veneta. Ma c’erano già le prime vittime.

Sono circa le 20.30 di un freddo 25 febbraio del 1991. Mafalda Begnozzi scende in tutta fretta le scale del condominio in contrà Torretti 24 per andare a raggiungere il marito in garage, senza nemmeno una giacca o un cappotto. È preoccupata, forse ha sentito il marito arrivare con la sua nuova Alfa 164 e discutere, o forse vuole avvertirlo che due uomini lo stanno cercando insistentemente e che forse è in pericolo. Non immagina che da lì a poco la sua vita si sarebbe fermata contro una pallottola calibro 7,65 di una pistola giocattolo Beretta-Molgora modificata e dotata di silenziatore.
I due killer non le lasciano scampo e la colpiscono quattro volte: alla gamba, all’addome, al torace e per finire alla nuca. Un’esecuzione, come per il marito che è stato giustiziato, qualche secondo prima, con un colpo alla tempia. Gli assassini fuggono, probabilmente con un complice che li aspetta in macchina, e da quel momento inizia uno dei casi più misteriosi e cruenti della recente storia vicentina.
L’avvocato Pierangelo Fioretto non era solo un bravo legale, era un ‘principe del foro’ nel ramo civile e per i fallimenti. Dal commissariamento del Cotorossi alla gestione legale della Mastrotto, una potenza nel campo della concia. E proprio sul rapimento del patron Mario Mastrotto, fece lui da mediatore per il rilascio con i giostrai che lo rapirono. Quando gli inquirenti, dopo il suo omicidio, misero mani tra le carte del suo ufficio trovarono decine e decine di casi spinosi che potevano essere il detonatore per una vendetta o per evitare che andasse a buon fine il suo lavoro.
Dal procuratore Candiani il caso passò al pubblico ministero Paolo Pecori che lo seguì per anni. Ma la parola mafia, a poco a poco, svanì, forse, semplicemente, per il comportamento dei due killer durante la mattinata di quel giorno. Infatti, il 25 febbraio 1991, il custode del Tribunale, che allora era situato a contrà Santa Corona, si ricordò della presenza di due uomini sui trent’anni che chiedevano insistentemente se qualcuno avesse visto l’avvocato
Fioretto. E lo chiesero a molti. Quasi volendo farsi notare. I due presunti killer potevano essere di Roma o comunque meridionali. Ma per quale motivo farsi notare in quel modo?
Anche questo resterà un mistero. Nel 1991, non era stata ancora costituita la DDA (Direzione distrettuale antimafia), la struttura giudiziaria che raccoglie tutti i fatti in odore di mafia e nata solo dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, nel 1992. Probabilmente, se il fatto fosse successo qualche anno dopo, l’inchiesta sarebbe finita sulle scrivanie di quei magistrati e forse sarebbe stata analizzata in modo diverso.

Omicidio Fioretto
Omicidio Fioretto

Solo oggi, conoscendo come le organizzazioni mafiose si siano stanziate in pianta stabile nel nord del Paese, possiamo avere qualche certezza in meno che il delitto sia da relegare solo a qualche ‘fallimento vicentino’ o ad una ipotesi, che pure fu presa in considerazione, che qualcuno avesse voluto saldare con una pistola e non col denaro un prestito da lui ricevuto.
L’eco dell’agguato e dell’esecuzione dell’avvocato e di sua moglie non passò inosservata e fece clamore ben oltre i confini della regione. Il giorno dopo, all’Ansa di Genova, arrivò una rivendicazione telefonica a nome della famigerata ‘Falange armata’, un’organizzazione terroristica virtuale che serve sia alle mafie che ai servizi segreti per siglare o depistare omicidi e stragi. E la pista fu presto abbandonata.
L’interesse degli inquirenti si focalizzò su un calabrese di Lamezia Terme: Massimiliano Romano, un ventiquattrenne pregiudicato per detenzione di stupefacenti e armi che risiedeva a Verona. Un sospetto nato dalla somiglianza con l’identikit di uno dei due killer e per quella pistola trovata nei pressi dello stadio Romeo Menti, una Molgora-Beretta modificata. Quasi un marchio della criminalità organizzata che la usava per la sua maneggevolezza e la sua leggerezza. Una pistola giocattolo messa fuorilegge nel 1989 proprio perché, con qualche modifica, poteva essere usata in modo letale.
Ma Romano non arrivò mai ad essere indagato ufficialmente dal pm Pecori. Dei sospetti su di lui si seppe solo dopo la morte avvenuta in uno scontro con la polizia a Sommacampagna, dove uccise due agenti.
Nessun indizio, nessun sospetto che avesse qualche riscontro effettivo. Non servì neanche la taglia di quattrocento milioni di lire, messa a disposizione dal fratello dell’avvocato Fioretto, per avere informazioni su esecutori e mandanti. Tutto scivolò verso l’archiviazione. Solo nel 2012, grazie agli esami del DNA, il Pm Pecori poté riaprire le indagini dopo che la Squadra Mobile di Vicenza riesumò dagli scatoloni impolverati quel guanto in pelle che
poteva contenere residui epiteliali invisibili all’occhio umano. Purtroppo, non servì a niente ed escluse in modo definitivo che fosse stato usato da quel Massimiliano Romano che era stato sospettato 21 anni prima.
Rimane sicuramente il fatto che i due killer non andarono per minacciare Fioretto. Andarono per eseguire un’esecuzione. I colpi sparati cercarono sempre organi vitali. Solo il caso incluse la moglie in questa tragedia. Ma anche la verità è stata inghiottita da quella fredda notte di febbraio.
Rimane il fatto che ancora non si era a conoscenza dell’invasione di colletti bianchi mafiosi e criminali che stava avvenendo in Veneto. Non era solo la mafia cruenta che stava risalendo lo Stivale, era qualcosa di molto più sottile. Prova ne abbiamo proprio da un boss della ‘ndrangheta che venne mandato “a fare esperienza affaristica” a Vicenza proprio in quegli anni, gli investimenti nelle località turistiche padovane e bellunesi scoperti da un’inchiesta della Dia, ma mai realmente seguita dalle scettiche Procure venete.
Non era solo il traffico di stupefacenti che interessava alle grandi criminalità. Era investire la montagna di soldi che ne scaturiva da questi traffici a ingolosire le mafie. E gli affari si fanno con e tramite uomini. Uomini che non sempre accettano le richieste della criminalità.