È storica la sentenza del Tar che illumina, finalmente, quella zona oscura nella quale finora la Rai ha sempre preteso di nascondere i suoi atti di gestione. “Storica” è il termine giusto, senza cedimenti a tentazioni retoriche o ad esagerate valutazioni emotive. La Rai è un’azienda partecipata dallo Stato pressoché totalmente, con il 99.56% delle azioni in mano al Tesoro, e il rimanente 0,44% alla Siae, che peraltro – in quanto Società italiana degli autori ed editori – non è propriamente un privato qualsiasi.Essa, come molte altre aziende partecipate o controllate dallo Stato pretende però di operare come qualunque impresa totalmente privata, ovvero con le stesse mani libere di chi decida come gestire i propri capitali, senza dovere informare né rendere conto a nessuno.
E ciò vale non tanto per le scelte strategiche e industriali, quanto per le tante forme di sprechi, regalie, ruberie nelle quali si annidano pratiche di corruzione più o meno camuffata: non per qualche incidente di percorso, ma come metodo di impiego delle risorse e delle scelte strumentali al mantenimento di questo modello di governance.
Come ciò sia finora stato possibile è uno di quei misteri nei quali risiede la spiegazione più convincente del “grado zero” cui l’Italia si è progressivamente (anzi, regressivamente) ridotta in fatto di etica pubblica, trasparenza, controllo sociale delle risorse collettive, cura e rispetto di quei quasi due miliardi di euro l’anno versati dai cittadini (tutti alla pari, ricchi e poveri) perché l’azienda possa vivere e operare. Il che presupporrebbe ovviamente che vivesse ed operasse nell’esclusivo interesse generale e nel rigoroso rispetto dei vincoli della concessione.
Nella realtà le cose stanno in modo completamente diverso e a consentire tutto ciò è sempre stata quella pretesa, da parte della società concessionaria e quindi delle persone nelle cui mani essa è posta, di nascondere ogni atto di gestione in tema di acquisti, forniture, appalti, incarichi, parcelle, consulenze, nonché in tema di impiego dei propri tredicimila dipendenti e quindi del loro trattamento, delle scelte di promozione o avanzamento di carriera, di nomina delle varie figure preposte alla guida di strutture, dipartimenti, testate, ecc…
La sentenza del Tar del Lazio 01354/2018 depositata il 2 febbraio scorso scardina questo fortino eretto in viale Mazzini: specificamente in tema di prove selettive per l’assunzione del personale, progressioni di carriera, provvedimenti attinenti l’auto-organizzazione degli uffici; in realtà e diffusamente in un ambito ben più vasto.
Come sempre accade, ci vuole qualcuno che si muova e si batta per fare crollare barriere fondate sull’arroganza del potere di pochi e sull’inazione dei molti dovuta a indifferenza, conformismo, tornaconto, opportunismo, scarsa coscienza della realtà, rassegnazione o stupida adesione a improbabili aspettative di possibili benefici da trarre dallo stato delle cose.
Nel nostro caso il, provvidenziale, “qualcuno” è un giornalista del Tg1, Alessandro Gaeta.
Non meno prezioso e decisivo il suo avvocato, Vincenzo Iacovino, il quale ha creduto in una battaglia di principio, con la determinazione e la tenacia necessarie per abbattere quella rete di potere la quale, pur legittimata unicamente dall’interesse generale della comunità e dai cittadini che pagano il canone, nei fatti ha quasi sempre tradito il primo e raggirato i secondi.
E’ molto ampia la schiera di avvocati “amici” della Rai, cioè che l’assistono nelle migliaia di cause in cui essa è coinvolta e che vengono pagati profumatamente, ovviamente con il danaro dei cittadini-contribuenti.
Per un avvocato che voglia massimizzare il suo profitto professionale è molto più agevole e conveniente assistere la Rai che qualunque sua controparte, tanto più se è una persona comune come un suo dipendente.
L’avvocato Iacovino da anni è impegnato invece nella difesa di lavoratori e lavoratrici della Rai, quasi sempre colpiti nei loro diritti e nei loro interessi dall’esercizio di quella pretesa di non pochi dirigenti Rai di violare ogni regola e fare a piacimento come, e a volte perfino più, che in una qualunque impresa privata.
La sentenza è storica perché abbatte il muro dietro cui finora, al buio e in silenzio, hanno prosperato trame, collusioni, affari ed interessi – privati, spesso illeciti, comunque in contrasto con quello del Servizio pubblico e della comunità degli utenti – perseguiti da settori non secondari della dirigenza e, complessivamente, dall’azienda concessionaria nel suo complesso.
Il Tar, pronunciandosi l’8 novembre scorso sul ricorso presentato da Alessandro Gaeta il 18 settembre 2017, ha riconosciuto il suo diritto di conoscere gli atti aziendali attraverso i quali erano state assegnate alcune posizioni di caporedattore delle testate nazionali Tg1, Tg2, Tg3 a conclusione di una procedura selettiva interna, ordinando alla Rai «l’esibizione dei verbali dei colloqui intercorsi con i candidati risultati vincitori e di ogni utile documento oggetto di valutazione ai fini della promozione a caporedattore, ivi compresi i curricula di tutti gli altri concorrenti; i nominativi della rosa dei nomi comunicata alla Direzione Generale».
La sentenza sconvolge un consolidato andazzo corrente, illegale e criminogeno, finora mai scalfito per effetto di quel combinato disposto dato dalla pretesa arrogante di un potere interno forte di coperture e d’impunità e dalla rinuncia collettiva, per le varie ragioni elencate, delle tante vittime e dell’intera comunità degli utenti danneggiata, a resistere, ad opporsi, ad agire.
E lo sconvolge non tanto nel letterale brano citato del dispositivo, quanto nella sostanza unitaria del provvedimento e nella complessità delle argomentazioni utilizzate dai giudici a supporto della decisione.
Il ricorso del giornalista che aveva partecipato alla procedura di job posting per il conferimento degli incarichi di capo redattore muove dalla sua richiesta all’azienda del Servizio pubblico di conoscere gli atti sui quali si fondavano le valutazioni compiute sui vari candidati.
Il 30 marzo 2017 Gaeta aveva chiesto «la documentazione relativa ai criteri su cui basare le scelte individuali per le nomine e/o promozioni a caporedattore; le note di comunicazione preventive ai comitati di redazione dei criteri stessi; i verbali dei colloqui intercorsi con il candidato ricorrente; i verbali dei colloqui intercorsi con i candidati risultati vincitori e ogni utile documento oggetto di valutazione ai fini della promozione a caporedattore».
La risposta della Rai, in data 18 maggio, era niente più che una furbizia: trasmetteva infatti le valutazioni, negative, sul solo Gaeta; negava in nome di una supposta privacy quelle sui vincitori, ovvero i caporedattori prescelti nel “Servizio pubblico”; trasmetteva una nota contenente i criteri per le nomine e le promozioni a caporedattore, aggiungendo che «non sono prescritte dal contratto collettivo di lavoro, particolari formalità per le comunicazioni ai comitati di redazione sugli esiti delle selezioni riguardanti una singola testata».
Gaeta non si arrendeva e il 5 giugno tornava alla carica con una nuova istanza di accesso nella quale – ricostruisce il Tar – evidenziava come la comunicazione dell’azienda non apparisse riconducibile ad alcun dirigente o responsabile, le contestava di avere utilizzato «formule precostituite, del tutto generiche e infondate», che non vi sarebbero state valutazioni di performance finalizzate e che la selezione denominata “job posting” sarebbe stata adottata «in violazione della Carta dei diritti e dei doveri del giornalista radiotelevisivo del Servizio pubblico, nonché dei principi di correttezza e buona fede». Per tali ragioni il giornalista ha reiterato la richiesta di esibizione documentale, con particolare riguardo ai verbali (non comunicati) relativi ai colloqui con gli altri candidati, ai documenti su cui la valutazione si è basata e ai nominativi della rosa dei nomi comunicati alla direzione generale.
La nuova richiesta non ha avuto alcuna risposta, sicché Gaeta si è rivolto al Tar.
Questa volta la Rai non ha fatto finta di niente ma, con i soldi dei cittadini, si è costituita in giudizio per insistere nella sua pretesa di non dovere spiegare, né comunicare, almeno per le vie ufficiali e trasparenti, niente a nessuno.
E come ha esercitato l’azienda del (supposto) Servizio pubblico questa pretesa?
Innanzitutto impegnando i propri legulei (sempre ben pagati, con i soldi dei cittadini) nel sostenere, pur di non far conoscere gli atti di quella selezione (cos’ha la Rai da nascondere?) l’inammissibilità del ricorso perché tardivo (in effetti il termine era scaduto rispetto alla prima richiesta, ma non rispetto alla seconda che peraltro poneva elementi nuovi) e per “carenza di interesse” (!); nonché la sua infondatezza in relazione alla richiesta dei verbali dei colloqui con i vincitori del job posting «non avendo il ricorrente allegato l’interesse qualificato che giustifichi una simile richiesta» e poiché «i noti principi giurisprudenziali ampiamente favorevoli all’accesso nell’ambito della concorsualità pubblica, non sarebbero estensibili alla presente selezione interna indetta dalla Rai».
Insomma, più che dinanzi ad un’azienda concessionaria di servizio pubblico, a leggere gli argomenti utilizzati, sembra di essere di fronte a qualche “figuro” poco raccomandabile colto con le mani nel sacco e capace di appigliarsi con fervida e disinvolta fantasia a qualunque cosa (tanto a pagare non è lui) pur di farla franca!
Per fortuna, almeno ogni tanto, “c’è un giudice a Berlino“, e questa volta perfino a Roma, sicché il Tar, smascherando gli arzigogoli elusivi nei quali si era rifugiata la Rai e accogliendo uno dei punti cardine del ricorso redatto dall’avv. Iacovino, ha chiarito – una volta per tutte – contro ogni furbizia presente, passata e futura, che ai sensi dell’art. 23 della legge n. 241 del 1990 «il diritto di accesso si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi…».
Poiché quello oggetto di concessione alla Rai è “Servizio pubblico” e l’azienda concessionaria, evidentemente, lo “gestisce”, che la Rai ritenga di non doversi assoggettare agli obblighi fissati dalla legge a carico dei “gestori di pubblici servizi“, in un paese serio sarebbe motivo più che sufficiente perché i responsabili – dal direttore generale all’ultimo dei funzionari che abbiano affidato un siffatto incarico legale e avallato la pretesa di nascondere le carte – venissero cacciati all’istante per tradimento dei doveri elementari connessi alle proprie funzioni.
In Italia no. In Italia i dirigenti che agiscono in questo modo sono superpagati (sempre con il danaro dei cittadini, doppiamente vittime) e ben protetti proprio perché possano agire, impunemente, in questo modo. E superpagati, sempre con i soldi dei cittadini, sono anche gli avvocati ingaggiati per sostenere con mille cavilli ogni imbroglio utile a non turbare questo stato delle cose.
Non solo la norma citata non ammette dubbi, ma il Tar produce argomenti ulteriori, enucleando i fattori dai quali, inequivocabilmente, dipende il necessario assoggettamento della Rai ai vincoli di trasparenza: «la prevista nomina di numerosi componenti del Cda (sette su nove, n.d.r.) non già da parte del socio pubblico, ma da un organo ad essa esterno quale la Commissione parlamentare di vigilanza; l’indisponibilità dello scopo da perseguire, il servizio pubblico radiotelevisivo, prefissato a livello normativo; la destinazione di un canone, avente natura di imposta, alla copertura dei costi del servizio da essa gestito». E aggiunge un dato tranciante: «l’azienda è di proprietà pubblica ed è la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo».
Netta la bocciatura, da parte del Tar che in proposito cita numerose sentenze, delle patetiche difese di una presunta privacy accampate dalla Rai: «stante l’assoggettamento della procedura selettiva di avanzamento (“job posting”) alle ricordate regole di imparzialità e trasparenza, che l’azienda radiotelevisiva è tenuta ad osservare, non vi sono ragioni per opporre un rifiuto alla esibizione legato a malintese ragioni di “privacy” degli altri concorrenti… Sussiste il diritto di un candidato che ha partecipato ad una procedura concorsuale e che è stato dalla stessa escluso, di accedere agli atti attinenti alla situazione giuridicamente rilevante relativa alla sua posizione di concorrente di un pubblico concorso… Inoltre il concorrente escluso da un concorso o non vincitore ha diritto di accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale… non vi sono limiti ai documenti ostensibili essendo noto infatti che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l’esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l’essenza della valutazione».
Come se ciò non bastasse, il Tar spazza via anche i dubbi relativi al fatto che l’accesso possa andare oltre l’ambito degli «atti che attengono in via diretta allo svolgimento del servizio pubblico radiotelevisivo» ed investire, per esempio, «un job posting, selezione interna per la copertura di mansioni di capo redattore, la quale è conseguenza di una decisione meramente organizzativa attinente allo svolgimento del rapporto di lavoro». E nel cristallizzare il principio, il Tribunale amministrativo attinge alle “coordinate ermeneutiche già fissate dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato” (l’equivalente delle sezioni unite della Cassazione, in tema di giurisdizione amministrativa) con la sentenza del 28 giungo 2016, n. 13, su un caso analogo riguardante Poste italiane, anch’essa azienda partecipata dallo Stato e preposta all’erogazione di un servizio pubblico.
Coordinate che potremmo riassumere così: il rapporto di lavoro implica lo «svolgimento di un’attività strettamente connessa e strumentale alla quotidiana attività di gestione del servizio pubblico»; i dipendenti della società, incaricata di tale servizio, possono vantare un «interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si chiede l’accesso»; il rafforzamento del principio di trasparenza, operato con le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, comporta che la trasparenza dell’attività amministrativa, definita come «livello essenziale….delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili» si applichi a «concorsi e prove selettive per l’assunzione di personale», nonché alle «progressioni in carriera»; il nuovo testo dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, inserisce tra i principi generali dell’attività amministrativa l’assicurazione che i soggetti privati, «preposti all’esercizio di attività amministrative», forniscano – per l’attuazione di detti principi (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza) – «un livello di garanzia non inferiore a quello a cui sono tenute le pubbliche amministrazioni….»; il rapporto di lavoro è riconosciuto quindi come fattore strumentale alla normale gestione del servizio pubblico (postale, e quindi anche radiotelevisivo); ne consegue «la rilevanza ex se di tale rapporto, per l’osservanza di regole di imparzialità e trasparenza, che vincolano tutti i soggetti chiamati a svolgere funzioni pubbliche (anche nella veste di datori di lavoro), nell’ambito di servizi che le amministrazioni intendono assicurare ai cittadini, direttamente o in regime di concessione».
Quest’ultimo principio riconosciuto dal Tar produce un effetto dirompente in quanto assume il rapporto di lavoro (con i tredicimila dipendenti in organico e con quelli futuri) come la base stessa dell’esercizio del Servizio pubblico vincolato a tutti i doveri e agli obblighi elencati i quali, pertanto, saranno la regola primaria e inderogabile che dovrà governare ogni atto che riguardi la totalità dei rapporti di lavoro e ognuno di essi, fin dal loro nascere e nel loro svolgersi. Il che equivale esattamente al contrario di ciò che (esemplificato nella ferrea logica della raccomandazione e della lottizzazione politica) abbiamo sempre visto finora.
Ecco perché la sentenza del Tar, appunto storica, va ben oltre l’accoglimento di una specifica richiesta e modifica radicalmente quello stato delle cose su cui finora amministratori e dirigenti Rai hanno potuto fondare, ed esercitare indisturbati, la pretesa di operare in una sorta di “zona franca”, violando norme e principi pur basilari e connaturati all’essenza stessa del Servizio pubblico, senza mai dovere rispondere ad alcuno, se non – ma ciò sempre nel quadro fosco di interessi e affari inconfessabili – alle fonti del proprio potere, fonti di matrice clientelare, prevalentemente di natura politica e soprattutto governativa.
Mille casi di cronaca ci raccontano quest’amara realtà, e dire che essi costituiscono solo un piccolo segmento delle dimensioni reali del fenomeno, in quanto solo una volta su mille un fatto che accada, come mera routine, dentro un meccanismo collaudato, ha la probabilità, per la ventura di una denuncia e di un pubblico ministero onesto e attento, di bucare il muro del segreto e del silenzio.
Questo potere – marcio, incontrollato e funzionalmente corrotto – ha sempre avuto l’arma decisiva del proprio perpetuarsi nella possibilità di nominare dirigenti e funzionari in totale sintonia con il proprio tratto costitutivo (e così, nell’informazione, direttori di testata, caporedattori e graduati vari, fedeli e asserviti), senza criterio alcuno eccetto quello che possa preservarlo ed alimentarlo, anche a costo di fare scempio di norme di legge e di principi di buona gestione, diligenza, correttezza e buona fede.
Quest’arma non c’è più.
O, meglio, non ci sarà più se l’esempio di Alessandro Gaeta sarà seguito dai tanti che, come lui, si ritengano ingiustamente sacrificati dallo stato descritto delle cose.
Chiunque, in una redazione Rai (ma anche in ogni settore dell’azienda che, non dimentichiamo, controlla ben 85 partecipate!) ritenga che la propria candidatura ad una posizione superiore sia stata bocciata perché l’azienda ha scelto un collega meno titolato di lui – ma, magari, raccomandato, fedele al capo, disponibile al compromesso e a tutto quanto alimenti questo sistema – agisca, senza dubbi né indugi: presenti un’istanza di accesso agli atti della procedura selettiva.
Ne ha diritto e la società concessionaria del Servizio pubblico avrà l’obbligo di esibire la documentazione.
Dopo di che, se le norme e i criteri di legge non saranno stati rispettati, quella nomina è nulla.
Ma questa, più che una possibilità, già fin d’ora appare una certezza.
Del resto lo stesso Tar, nel caso del ricorso Gaeta, dovendo circoscrivere l’ordine di esibizione di documenti impartito alla Rai, ha dovuto escludere “i criteri selettivi” in quanto insussistenti, come le note di comunicazione ai Cdr. La Rai in effetti rivendica di avere comunicato i criteri, con una nota del 29-11-2016, ma essa, anche in questo caso, è una furbizia ed una finzione in quanto in buona sostanza la nota si limita ad “assicurare” (!) che saranno selezionati i migliori!
Se tali criteri non sono stati predeterminati in modo preciso e rigoroso (nel nostro caso, semplicemente non esistono) e se l’esito della procedura selettiva non è derivato coerentemente dalla loro scrupolosa applicazione, essa è nulla.
Insomma, quel potere, oscuro e assoluto, che ha piegato ogni atto di governo della Rai alle clientele (politiche, ma non solo) e alla rete di affari ed interessi privati che succhiano risorse con la connivenza di amministratori e dirigenti (appositamente nominati e protetti) oggi è nudo. E’ un potere disarmato e senza gli artigli con cui ha afferrato mille prede, senza mai dare scampo a chi volesse battersi per un corso diverso delle cose.
Oggi, per la prima volta, ci sono le condizioni per quella che, finora, era sempre apparsa una rivoluzione – giusta, ovvia, ma – impossibile.