Uno degli assunti della comunicazione nonviolenta[1] riguarda il sentimento di compassione che dovrebbe condurci, mentre comunichiamo, a riconoscere come reali, vivi, sia i nostri bisogni sia quelli degli altri, con cui stiamo entrando in relazione. Un’empatia diffusa che dovrebbe spingerci verso una comunicazione autentica.
La nostra società egocentrica, tuttavia, propone stili di comunicazione sempre più autoriferiti, che virano in una direzione opposta, fatta di aggressività e prevaricazione e si alimentano nella non curanza e nell’indifferenza degli interlocutori coinvolti. Questa deriva è presente ad ogni livello sociale e non è un caso che, anche a livello politico, il dialogo istituzionalmente orientato all’interno del Parlamento sembri essere considerato, ormai, un puro accessorio burocratico.
Probabilmente, tuttavia, prima di criticare e scandalizzarci per i modi in cui le istituzioni politiche portano avanti le loro forme comunicative o per le strategie discorsive incivili dominanti nei social o in TV, dovremmo riflettere sulle forme arroganti e inconsapevoli presenti nelle nostre relazioni quotidiane, tutt’altro che informate dalla comunicazione nonviolenta.
Abbiamo imparato a parlare prima sillabando, poi formulando intere parole, quindi costruendo frasi di senso compiuto. Lo abbiamo fatto in modo spontaneo, attraverso l’imprinting, ma anche grazie alla guida altrui. Ad ogni modo, dovremmo chiederci: siamo mai stati educati all’ascolto? Abbiamo mai imparato a prestare davvero attenzione a ciò che ci viene detto? Non credo proprio!
Ultimamente mi ritrovo sempre più spesso vittima di appostamenti ed agguati ad opera di colleghi e conoscenti, che mi agganciano di sottecchi, rendendomi interlocutrice forzata (e disagiata) dei loro infiniti monologhi.
Animati da una verbosità incontrollata, utilizzandomi alla stregua di un pungiball, mi stordiscono con le parole, mi ubriacano, rendendomi inerme, confusa ed arrabbiata con me stessa perché incapace di sfuggire ad una situazione ansiogena.
Hanno l’esigenza di parlare, parlare e parlare ancora, “vomitandomi” addosso le loro considerazioni, argomentazioni o interrogativi che hanno già una risposta, ma insieme anche risposte a domande mai poste. Chiacchierano senza sosta, riempiono l’ambiente di suoni, senza interrogarsi su quanto possano essere attraenti i loro discorsi o se l’interlocutore (sempre la me disagiata) abbia tempo (e soprattutto voglia) di ascoltarli.
L’importante è portare a termine il loro copione autobiografico, sceneggiato e diretto in maniera autoreferenziale; ogni qual volta io tenti una sintesi dell’argomento, perché già noto o di poco conto, sono costretta a sorbirmi da capo il discorso, pertanto meglio aspettare che lo sfogo sia finito e liberarmene, lasciandoli liberi di carpire poi una nuova vittima.
All’inizio ho provato pure a ribellarmi, ho sperimentato svariate vie di fuga, che vanno dal silenzio imbarazzato, allo sguardo altrove, sono ricorsa persino alla rigidità facciale, onde evitare qualsiasi tipo di rinforzo positivo, (mai annuire, completare una parola, assentire…) ma è tutto inutile, lo assicuro.
Il filosofo Immanuel Kant scrisse che per lui era mortificante pensare di imporsi agli altri semplicemente spruzzandosi del profumo, che avrebbe comunque investito le narici altrui, anche senza il loro consenso, adesso non chiedo di avere una riverenza tale nei confronti degli altri, ma nemmeno ignorare quanto spossa essere insostenibile una comunicazione del genere e quanto possa danneggiare le relazioni.
La comunicazione che ne nasce è insana, unilaterale, priva di significato e disfunzionale. È il sintomo di un atteggiamento compulsivo, a volte egocentrico, che nell’incapacità all’ascolto vede l’antenato della mancanza di empatia.
Una comunicazione nonviolenta è sostenibile quando riusciamo ad ascoltare per l’80% del tempo e parlare per il 20%. Tuttavia, noi, che ci riteniamo delle vittime dalle orecchie sanguinanti, ne siamo davvero capaci?
Probabilmente anche stavolta la risposta è negativa, perché non riflettiamo abbastanza sulla questione, non ci poniamo nell’atteggiamento di ascolto attivo, non percepiamo le ragioni e i sentimenti degli altri. In realtà, il fatto è che non siamo mai pronti ad un coinvolgimento completo e ininterrotto, nessuno ce l’ha mai insegnato o forse quando l’hanno fatto, non ascoltavamo!
Chi non sa tacere, non sa neppure parlare. (Seneca)
Di Daria Motta.
[1] B. Rosenberg Marshall, Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta, Esserci, Reggio Emilia 2017.
Daria Motta è nata a Catania il 17/11/1982, ha frequentato il Liceo Scientifico e dopo si è laureata in Filosofia con specialistica in Storia della filosofia. Neolaureata ha avuto accesso alla SISSIS e si è abilitata per la classe A/036 Filosofia e Scienze Umane. Ha iniziato le supplenze a Padova, per poi abilitarsi al Sostegno attraverso il CSAS sempre a Padova. Da 7 anni è docente di ruolo e vive a Roma e insegna al Liceo artistico “Enzo Rossi”. È appassionata di sport, arte e musica.
Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza
a cura di Michele Lucivero
Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza e Oikonomia. Dall’etica alla città