Due giornaliste, e una battaglia lunga dieci anni per vedere riconosciuta la correttezza del proprio lavoro e il legittimo esercizio del diritto di critica. Antonio Angelucci, imprenditore della sanità, editore, a lungo deputato per il Popolo delle Libertà e per Forza Italia, aveva chiesto (insieme a due suoi familiari) 20 milioni di euro di danni alla società editrice dell’Unità, al suo allora direttore Concita De Gregorio e alla giornalista Maria Grazia Gerina per sei articoli pubblicati nel 2009. Dieci anni dopo, la Corte d’Appello dà ragione alle ragioni delle giornaliste, e condanna Angelucci a pagare le spese di giudizio.
La contesa riguarda sei articoli apparsi sull’Unità tra ottobre e novembre 2009, nel periodo in cui sulla Regione Lazio erano in corso due inchieste. La prima (della procura di Roma) sulle trattative per vendere ai giornali il video girato dai carabinieri che ritraeva il governatore Piero Marrazzo in compagnia della trans Natalie. La seconda (della procura di Velletri), nei confronti di Angelucci, che in quanto editore avrebbe fatto un uso strumentale dei suoi giornali per ottenere guadagni con le attività delle case di cura Tosinvest.
Già in primo grado, il giudice aveva riconosciuto che quanto riportato in tutti e sei gli articoli rispondeva al requisito dell’interesse pubblico. E aveva assolto Gerina (e De Gregorio) per cinque articoli, ritenendo diffamatorio solo il sesto, quello del 7 novembre 2009 che, dopo aver illustrato le due indagini in corso, ne ricostruiva gli intrecci. In particolare accostando due episodi avvenuti a pochi giorni di distanza: il primo, l’arrivo nella sede della Regione Lazio di Antonio Angelucci, il 15 ottobre 2009, durante la discussione della delibera sui tagli alla sanità. Il secondo, un incontro privato tra Angelucci e Piero Marrazzo avvenuto solo cinque giorni dopo, il 20 ottobre.
L’articolo secondo il giudice era diffamatorio, perché era “chiarissima l’illazione della giornalista secondo cui, nell’incontro del 20 ottobre, tra Angelucci e Marrazzo si sarebbe parlato sia dei tagli alla sanità, sia del video di via Gradoli”, fino a “indirettamente affermare che il video fosse stato utilizzato quale possibile merce di scambio”.
Gerina e De Gregorio hanno fatto appello, invocando il legittimo esercizio del diritto di critica e il fatto che la giornalista “si era limitata a riferire fatti veri, senza esprimere opinioni personali né qualificare Angelucci come un ricattatore”. E ora la Corte d’appello smonta la tesi della sentenza di primo grado: l’articolo “è sicuramente da definirsi un misto di cronaca e critica” laddove Gerina mette in parallelo le due indagini, ma “non ha fatto altro che collegare dal punto di vista cronologico una serie di fatti la cui veridicità non è contestata”. La giornalista “non ha definito Angelucci ricattatore né gli ha attribuito espressamente intimidazioni e minacce, ma nell’esercizio del diritto di critica, ha sottolineato che il periodo era cruciale per entrambe le trattative”. Angelucci viene anzi condannato a pagare le spese legali. Dopo dieci anni, e una richiesta di risarcimento da 20 milioni a due giornaliste vissute per anni sotto minaccia per aver fatto il proprio mestiere.