Dopo l’intervista al Presidente della Croce Verde Vicenza Giuseppe Dal Ponte, oggi raccontiamo l’emergenza Coronavirus Covid 19 dal punto di vista di una infermiera volontaria che offre il suo aiuto da quasi 5 anni all’organizzazione di pubblica assistenza vicentina. Tra un turno e l’altro, siamo riusciti a farle qualche domanda.
Chiara, infatti, ha da poco finito il suo lavoro in ambulanza. È volontaria presso la Croce Verde, ma durante la settimana lavora anche in una casa di cura privata. I turni con il SUEM sostituiscono il suo tempo libero, soprattutto in questi giorni nei quali la richiesta di personale è molto alta, ma questo non le fa perdere il sorriso. Le abbiamo chiesto di raccontarci com’è cambiato quello che fa dall’inizio dell’emergenza Covid 19, ma anche di regalarci qualche ricordo che possa dare un po’ di speranza.
Cos’è cambiato a livello di protocolli e servizi all’interno della Croce Verde con l’emergenza Coronavirus?
Sicuramente è cambiato il contatto con il paziente. Adesso, ogni volta che giunge una chiamata al 118, viene fatto già un pre-triage con le classiche domande «ha avuto la febbre negli ultimi giorni? Tosse, difficoltà respiratorie? Contatti con qualcuno potenzialmente infetto?». Quindi, quando la centrale operativa ci chiama, abbiamo già un’idea se il paziente è un sospetto Covid o meno. Poi abbiamo adottato numerosi protocolli come l’utilizzo di dispositivi per la protezione individuale, l’areazione dell’ambulanza, la disinfezione della stessa (che dura anche mezzora dopo ogni intervento di sospetto Coronavirus), l’attrezzatura dell’ambulanza e dove tenerla.
Altri protocolli prevedono invece la vestizione di noi operatori in un determinato modo: camici, cuffie, mascherine e occhiali. Non ci riconosciamo quasi più neanche tra di noi. Si vedono solo gli occhi. E quindi provo a mettermi nei panni del paziente che quando sta male si vede arrivare delle persone con gli scarponi, coi borsoni e a cui vedi solo gli occhi. È un impatto duro, un primo approccio difficile. Quando sono casi quasi certi di infezione da virus, i pazienti sanno già a cosa andranno incontro ma sono, comunque, spaventatissimi. E lì sorge la difficoltà a relazionarti col paziente, è difficile riuscire a tranquillizzarlo almeno durante il trasporto. Lo stai portando comunque verso qualcosa di incerto.
Quindi il contatto umano è quasi tutto nel tuo lavoro.
Sì, in questa emergenza è la cosa che è cambiata di più. C’è l’impossibilità ad avvicinarti al paziente anche solo per tenergli la mano o per parlargli, soprattutto a quelli più anziani che magari sentono di meno, quindi ti avvicini un pochino per parlargli più forte. Invece adesso devi sempre stare a distanza con mascherine e protezioni.
Quando hai sentito la notizia dei primi contagi a Codogno e Vo’ Euganeo, ti aspettavi sarebbe diventata così la situazione?
Io non me l’aspettavo, per niente. Ricordo che proprio il 21 febbraio, quando si è sentita la notizia dei primi contagiati dal Coronavirus, ero di turno in ambulanza di pomeriggio e ne stavo discutendo anche con i colleghi. Ho pensato: sarà un caso o due, una decina in tutto in Italia, ma non pensavo che la situazione sarebbe arrivata a queste dimensioni. Secondo me è stata un po’ sottovalutata all’inizio.
Parlando di cose meno tristi invece, ricordi un momento bello nei turni degli ultimi giorni?
Allora, qualche giorno fa siamo stati chiamati da un paziente di 60 anni “rinchiuso” in casa da 20 giorni perché aveva la febbre alta. All’inizio si era messo in auto-quarantena da solo. Quando siamo arrivati a casa sua abbiamo notato subito che era davvero in difficoltà a respirare. Aveva infatti una saturazione molto bassa, non l’avevo mai vista così bassa.
Con l’ossigeno e vari interventi siamo riusciti a riportarlo a respirare. È una cosa a cui nella normalità non pensiamo, ma quando ci manca la possibilità di respirare veniamo privati di una cosa fondamentale. Sentire che ti manca il respiro è una cosa orribile. Il sentirsi “affogare” è una delle sensazioni che gli affetti da CCovid sintomatici descrivono più spesso. Alcuni si sentono affogare nel loro stesso respiro, ti dicono. Quindi, dopo essere riusciti a ridargli la possibilità di respirare in maniera accettabile, lui ha continuato a dirci «grazie, grazie», «tu mi hai salvato». E questo è stato un bel momento, senti di aver fatto qualcosa di importante.
Cosa ti aspetti succederà nella situazione post-Coronavirus?
C’è bisogno di una ripresa graduale, se no si torna subito ad un picco di contagi. E comunque bisorrà mantenere l’attenzione molto alta: non avvicinarsi troppo alle altre persone, utilizzare la mascherina. Queste cose dovranno continuare per un bel po’ di tempo. Quello che mi auguro è che una situazione del genere abbia cambiato il modo di vedere la vita delle persone.
Quando si viene privati della libertà ti rendi conto di quanto sia fondamentale fare cose anche semplicissime, come fare una passeggiata con gli amici. Cose che però non sono affatto banali. E quindi dobbiamo godercele quando si ha la possibilità di viverle. Inoltre, spero venga rivista la figura dell’infermiere in quanto non solo ombra del medico, come purtroppo è ancora molto spesso considerato. L’infermiere non è un mero esecutore, è una figura professionale a sé. Ho sempre pensato infatti che i medici e gli infermieri siano uno la mano e l’altro il braccio. La mano non può funzionare senza il braccio, e viceversa. Uno integra l’altro. Bisogna quindi rivedere questa figura dandogli una giusta importanza.
E un giusto compenso, aggiungiamo noi.
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