Coronavirus, cominciamo a pensare al dopo

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Coronavirus, guardare al dopo
Coronavirus, guardare al dopo

L’epidemia di Coronavirus CoVid-19 ci sta cambiando la vita. Questo è un fatto. Ma quando passerà cosa succederà? Torneremo alla nostra “normalità”, quella di qualche mese fa? Avremo imparato qualcosa o tornerà tutto come prima? Allegramente e con la abituale incoscienza saremo ancora pregni di egoistico individualismo? Crederemo ancora che il mercato e la finanza siano il nostro futuro o penseremo che c’è qualcosa d’altro? Qualcosa che è molto più importante e che non può (né deve) essere delegato ad altri e non sia materia della collettività? Sarà ancora il mercato a controllare le nostre vite o lo Stato dovrà riappropriarsi di quel ruolo fondamentale che gli è stato scippato da una politica liberista e privatista che è stata il pensiero unico di questi ultimi decenni?

Domande alle quali dovremo dare risposte (e, in base a queste, prendere decisioni) perché se non lo faremo la stessa situazione, non solo fisica, che stiamo vivendo in queste settimane si riproporrà dopo l’emergenza coronavirus.

Non significa solo cambiare abitudini ma trasformare la società. Il sistema, il modello di sviluppo. Progettare un nuovo ordine. Significa prendere coscienza che non è più possibile né auspicabile basare l’esistenza, le nostre vite, sul profitto ma che è necessario interagire (e rispettare) “gli altri”. Significa che i conflitti tra le nazioni (le religioni, gli stili di vita) devono essere affrontati non con le guerre ma con la solidarietà. Significa ridisegnare il mondo costruendo una globalizzazione ben diversa da quella che tanti danni ha provocato.

E, soprattutto, significa capire che il lavoro, l’ambiente, la salute, l’istruzione sono diritti inalienabili di ogni essere umano. Non importa in cosa creda o dove sia nato. Ognuno ha diritto di vivere e di avere un futuro.

E allora, basta con un sistema che produce enormi ricchezze ma solo per qualcuno ed estreme povertà per troppi. Basta con ristrettissime minoranze che detengono la stragrande maggioranza della ricchezza del pianeta. E basta con lo sfruttamento delle persone, dell’ambiente, della conoscenza per scopi personali o per i privilegi di piccoli gruppi di ricchissimi potenti.

Lo stiamo vedendo in questi giorni, un virus sta facendo crollare tante certezze. Quella di vivere in una parte del mondo immune alle epidemie, per esempio. O di credere che sia necessario chiudere i “reietti” e i “selvaggi” del mondo in lazzaretti dove possano soffrire e morire senza disturbare. No, siamo noi chiusi in un edificio fatiscente che si chiama paura. Crollano tante certezze e tra queste l’immortalità di un sistema, quello capitalista, che sembrava l’unico possibile.

E crollano anche tanti luoghi comuni. Sulle ideologie, ad esempio. Da tempo si pontifica sulla loro fine (e si intendono quelle estranee a quella capitalista) e adesso ci accorgiamo che non sono le ideologie ad essere il male, ma che proprio la loro “messa al bando” ci ha impedito di pensare che sistemi diversi da quello imperante potessero essere migliori.

Adesso ci sentiamo deboli e ci riconosciamo vulnerabili, ma fino a ieri (e ancora adesso) abbiamo tagliato i servizi essenziali per una vita degna di essere vissuta. Ci troviamo con una sanità che credevamo la migliore possibile e ci accorgiamo che si doveva fare altro. Che gli investimenti non andavano tagliati ma rinforzati e che la salute non può essere gestita come un’azienda che deve stare attenta al pareggio di bilancio.

Abbiamo considerato l’evasione fiscale quasi un diritto e adesso ci accorgiamo che tutti quei miliardi (centinaia) che sono serviti ad arricchire i pochi, sono stati rubati a tutti. Ci accorgiamo che sarebbe stato un dovere di tutti pagare il dovuto e che tutti quei soldi potevano servire a salvare tante vite. Ci accorgiamo adesso che la ricerca non è qualcosa che può e deve essere fatta solo per un ritorno economico ma deve essere qualcosa di strutturale che ci permetta di sviluppare innovazione e tecnologie che, prima di creare profitto individuale o d’impresa, devono consentire all’umanità (tutto il genere umano e non solo i più ricchi) di essere “proprietaria” del progresso.

Abbiamo confuso per troppo tempo il progresso con il profitto e adesso dobbiamo essere noi a mettere in discussione certi dogmi.

È importante rispondere a quelle domande che derivano dall’osservazione di quello che sta accadendo, della nostra paura. È necessario per poter progettare, quando questa epidemia finirà (perché, prima o poi, il Coronavirus sarà sconfitto o impareremo a conviverci), un mondo diverso e migliore. Un mondo dove gli sforzi delle nazioni non siano destinati a sottomettere “gli altri” ma ad essere tutti liberi e uguali.

Quella che può e deve nascere dalla tragedia che stiamo vivendo è una società diversa in cui il capitale non sia il fine unico né ultimo della nostra esistenza.

(qui la situazione ora per ora sul Coronavirusqui tutte le nostre notizie sull’argomento, ndr)

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.