Sono il Coronavirus? No, sono “L’angelo sterminatore”: di Piero Cipriano, Pier Paolo Capovilla e Gabriele Brasiliani

436

Per gentile concessione di elèuthera editrice (Video) testi: Piero Cipriano. Voce: Pier Paolo Capovilla. Montaggio: Gabriele Brasiliani.

Il commento di Pier Paolo Capovilla per gentile concessione di Rolling Stone 

“Il sonno è un’illusione in cui si continua a vivere”, scriveva Artaud nel 1946 dal manicomio di Rodez.
Anch’io oggi, come chissà quanti altri, ho faticato ad addormentarmi. Devo essermi alzato almeno tre volte. Ho bevuto un po’ di Ferrarelle, fumato una sigaretta, e osservato il soffitto di travi lignee di questa bella casa nella quale mi ritrovo ospite da qualche mese. La mia è in ristrutturazione ordinaria; io e la mia compagna prevedevamo di rientrarci nel giro di un paio di mesi, e invece siamo all’ottavo. Verso le 6 del mattino mi sveglio di nuovo. Mi sento inquieto, in preda ad uno stato d’ansia che ormai conosco bene. Decido di farmi una piccolissima canna d’erba, di quella che si compra in tabaccheria. Il CBD, penso, mi farà qualche effetto.
Ritorno a dormire, chiudo gli occhi e cerco di non pensare a niente. Finalmente dormo davvero.
Ma ecco che i sogni squarciano il mio riposo, e lo trasformano in un girone purgatoriale apparentemente privo di senso. Una spiaggia assolata, verso sera. Tanta gente intorno a me. Molti stanno facendo le sabbiature. Hanno il volto di porcellana, colorato come quello degli uccelli esotici, alcuni hanno la forma della testa di un corvo. Cerco di tenermene alla larga. Ci sono anche tanti miei amici, che riconosco. Li trovo al chioschetto della spiaggia. Bevono birra gelata e ridono di gusto. Un’anziana signora, spregiudicata, mi abbraccia. Cerco di liberarmi di lei, ma non ci riesco. Lei incomincia a cantare Direzioni Diverse, con voce angelica, ed io cerco di consolarla accarezzandole la fluente chioma brizzolata. Nel frattempo vedo una casa sollevata e spazzata via da un uragano. Mi sveglio all’improvviso, sopraffatto da un sentimento strano di paura e commozione.
Santo cielo… Ma che cosa diavolo c’è dentro il mio cervello?
Che cosa vuoi che ci sia, Pierpaolo, rifletto sommessamente. Ci sei tu. C’è tua madre, della quale ti sei occupato così poco. Avevi troppo da fare, troppe cose a cui pensare. L’hai abbandonata al suo destino, ad una vecchiaia lenta e inesorabile. Ti facevi vedere un paio di volte all’anno, e ora ti senti in colpa. C’è Dany, quel tuo antico amico a cui hai sempre voluto bene. Suonava con te nel primissimo gruppo di cui facevi parte, tu suonavi il basso, Dany cantava a squarciagola.
E tutta quella gente? Era quella forma informe di disumanità che ti circonda ogni giorno, e nella quale non ti riconosci. La casa che vola via rappresenta le tue attuali e gravi preoccupazioni per il futuro.
Ma forse la sto facendo un po’ troppo semplice. Lessi Freud che avevo vent’anni.
Però è vero. Nel sonno si continua a vivere. Il sogno è un momento a volte così verosimile da divenire un’esperienza quasi più reale del reale quotidiano. Adesso poi, in queste circostanze… La quotidianità non sembra più reale. Le giornate si dilatano e si comprimono. Esco solo per comprare il pane, la pasta, quel po’ che serve per cucinare qualcosa di decente, le sigarette, il vino, la vodka, quest’ultima solo il fine settimana, e il mio amato giornale, Il Manifesto, di cui non riesco a fare a meno. Lo compro in edicola malgrado in questi giorni di lockdown la sua versione on-line sia consultabile gratuitamente. Bella iniziativa, compagni! Vesto sempre gli stessi abiti. Stessa camicia. Stessi pantaloni. Stessa giacca nera in lino comprata un paio d’anni fa da H&M. È una giacca che non ho mai amato, mi sta un po’ grande. Stesse scarpe, impolverate. Non c’è più niente che mi spinga ad apparire migliore di quel che in realtà sono, o credo di essere. Le scarpe, infatti, non le lucido più. Non stiro più un bel niente. Prima invece era una specie di mania. Stiravo anche gli asciugamani, i calzini, le lenzuola. Mi rilassava. Non mi sbarbo da un mese e quasi non mi riconosco più allo specchio. Mi sento vecchio, all’improvviso, in piena decadenza.

La vita si è fermata, sembrerebbe.
Ma che cosa si è davvero fermato?
Ogni giorno cerco di riflettere su ciò che ci sta accadendo. Che cosa sta accadendo?
Un accidente storico, come tanti altri?
Una crisi economica senza precedenti, foriera di guerre e conflitti, come sempre?
Una straordinaria occasione per ripensare il nostro stile di vita, le nostre consuetudini?
Un esperimento sociale di controllo globale della vita delle persone?
Il superamento delle democrazie e i prodromi di un nuovo ordine mondiale?
Forse nessuna di queste ipotesi, forse tutte quante insieme.
È proprio questo che spaventa.
La pandemia ci sta mettendo di fronte a noi stessi. Ci obbliga allo specchio e ci interroga.
Ancora Artaud, dal suo manicomio: “mi ricorderò sempre della mia vita su questa terra, e che non bisogna limitarsi al compatto e all’opaco di una molteplicità messa insieme tanto rischiosamente”.
Antonin Artaud, il più grande drammaturgo del Novecento, colui che cambiò il teatro per sempre sbarazzandosi della ‘rappresentazione’ trasformandola in vita reale, nel qui ed ora, visse la sua breve esistenza nel più violento momento storico conosciuto dall’umanità, le due guerre mondiali. Vide e visse i nazionalismi, la legge marziale, l’omicidio di massa, le deportazioni, e il manicomio, ovviamente.
Non è forse un manicomio questo?
Cosa c’è e cosa c’era di razionale, ovvero di ragionevole, nella nostra vita collettiva?
Che cos’è che ci ha sempre spinto a consumare immense quantità di beni e servizi? Cosa ci ha spinto ad inquinare un pianeta che è uno, uno solo, e la sua atmosfera, unica anch’essa, spessa come la distanza che intercorre fra Roma e Civitavecchia, che ci dona ogni giorno la luce di una stella senza la quale questo mondo sarebbe poco più di un insignificante asteroide privo di vita? Perché non abbiamo voluto pensare criticamente a ciò che stavamo facendo, e abbiamo lasciato milioni e milioni di esseri umani morire di fame, sete, malattie, bombe intelligenti e proiettili vaganti e naufraghi nel mare della nostra mortifera indifferenza?
Ora, che non ne abbiamo più bisogno dell’aperitivo, costretti come siamo in circostanze tanto inattese, possiamo incominciare a chiedercelo.
Ha ragione Greta. Come siamo potuti arrivare a questo punto?
Siamo tutti degli assassini, ecco cosa siamo. Se non lo siamo, siamo pur sempre testimoni oculari, tutti quanti, del peggior crimine che sia stato compiuto nella breve – perché è breve – storia del consorzio umano.
La nostra è la società più imperfetta che sia mai apparsa nel decorso storico delle ere antropologiche. Ed è la più pericolosa organizzazione sociale che potessimo inventare.
Il profitto, erto a dio e demiurgo del nostro presente, ci sta costando caro.
Leggo nei giornali che il pianeta si sta prendendo una boccata d’aria. Era ora. Dicono che qui nella mia Venezia siano ricomparsi i pesci nei canali. Non è vero, ci sono sempre stati, ma non si vedevano, tanto l’acqua lagunare veniva intorbidita dal passaggio delle barche. L’inquinamento delle aree industriali di mezzo mondo è comunque diminuito grandemente, consentendo alla natura di riprendersi qualche spazio apparentemente inimmaginabile fino a un paio di mesi or sono. Non tutto il male vien per nuocere, si dice.
Ma attenzione. Dobbiamo stare attenti. Dobbiamo essere vigili. È più facile immaginare la fine del mondo, che la fine del capitalismo, scriveva il compianto Mark Fisher nel suo basilare Realismo Capitalista. Non è che uno slogan, di volta in volta attribuito a Fredric Jameson, Slavoj Zizek, e allo stesso Fisher. Ma è stravero.

Ricordo che anni fa, quando facevo l’università ed ero un attento studente di filosofia ed economia politica, un professore di Sociologia Economica, Pietro Basso, durante una delle sue avvincenti lezioni di storia dell’economia moderna (erano avvincenti, il suo talento didattico resta per me indimenticabile) ci mise in guardia, sorprendendoci oltre modo. Ci disse chiaro e tondo: ragazzi, dovrete impegnarvi; voi siete giovani, e ci arriverete, vedrete! Conoscerete qualcosa di più grottesco e spaventoso del nazi-fascismo. Alzai la mano per intervenire: professore! Ma cosa state dicendo?
La sua risposta fu inequivocabile: quando il capitalismo entra in una crisi irreversibile, si trasforma in un complesso militare industriale che non lascia scampo.

Ecco. A ripensarci, proprio oggi, mi vengono i brividi.
Non era una ‘battuta’ quella del professore, non era uno ‘slogan’. Era quanto di più lucido potesse suggerirci uno studioso profondo e geniale come Pietro Basso.
Ci siamo dentro fino al collo, e da decenni, in questa crisi del sistema capitalistico. L’impero statunitense dalla Seconda guerra mondiale in poi non fa che accumulare armi di distruzione di massa, spingendo il resto del mondo a fare altrettanto. La sua prima preoccupazione è sempre stata quella di dominare il mondo nella sua interezza. Una talassocrazia invincibile che impone all’intera società umana il suo modello di sviluppo.
Prevaricatrice espertissima nell’arte della strage, piega le nazioni riottose alla sua volontà di potenza, i popoli al suo sistema monetario, la gente, tutta, al suo coacervo bio-politico di desideri individualistici, fino a spingere l’umanità intera verso un unico principio esistenziale: il piacere. E il piacere, in questo mondo fottuto, altro non è che il denaro.
Il denaro, e sempre e solo il denaro.
Nessun mutualismo, nessuna solidarietà, nessuna fratellanza. Il denaro.
E chissenefrega se il mondo andrà a puttane.

Vorrei provare a fare il professore anch’io, anche se non lo sono, neanche un po’, ché le mie negligenze sono troppo grandi.
Occhio ragazzi.
Il momento è cruciale.
Ci sarà un prima e un dopo.
Il prima ce lo siamo vissuto nell’indifferenza, consapevoli o meno delle nefaste conseguenze. Il dopo ce lo giochiamo ora.
Ci sarà di che ragionare e riflettere, discutere e pianificare, lottare, sì, lottare. Perché un mondo migliore è possibile, ma uno peggiore è, purtroppo, probabilissimo.

Il sogno di Piero Cipriano, psichiatra basagliano e psico-farmacologo critico, è un lungo e fitto pensiero oscuro. È un presente che incombe sul futuro come un assassino attende di notte la sua vittima, all’angolo buio di un palazzo abbandonato.
Caro Piero, amico mio, fratello. Mentre registravo l’audio del tuo potente pezzo letterario, non ho potuto, ancora una volta, non pensare ad Artaud.
Forse impazziremo tutti quanti, proprio come lui.
Ma cosa sia davvero la follia, non lo sappiamo ancora.
Forse, come già ci siamo detti fra un bicchiere e l’altro in qualche osteria romana, i pazzi siamo noi, che non vogliamo vedere le conseguenze delle nostre azioni, che offendiamo la vita ogni giorno, implacabili come solo gli umani sanno essere.
E la follia, quella cosa che ci fa paura perché sconosciuta, nessuna eziogenesi, incurabile, che ci osserva terrorizzata, che cos’è se non una visione alternativa del mondo? E che mondo!

“Il fatto è che il mondo non è mai stato mondo, perché c’è sempre stato di fianco al mondo a venire, al corpo sofferente del mondo in cammino verso la sua maturità, l’incorreggibile bestiame degli approfittatori dell’abisso, della inesauribile razza dei non-io. Esseri che non hanno mai voluto avere un io o un essere, ma che si sono sempre rimessi a non so quale principio incondizionato delle cose per dare loro il modo di esistere. Che non hanno mai voluto vedersi se non confusi con questo principio, anzi, hanno voluto essere questo stesso principio, in via di manifestarsi, e che non hanno mai voluto vedere che ne erano solo larve polverose e scarlattina del cedimento” (Antonin Artaud, manicomio di Rodez, 1946).