Caso Cospito, il magistrato Giovanni Schiavon al ministro Nordio: per difendere lo Stato ricorra all’alimentazione forzata

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caso Delmastro e Alfredo Cospito (foto Il Riformista)
Alfredo Cospito (foto Il Riformista)

La vicenda dell’anarchico pescarese Alfredo Cospito che sta scontando il carcere in regime di 41 bis è giunta ad una svolta decisiva: la Corte di Cassazione ha respinto il suo ricorso, così confermando che, per lui, non è diversamente scontabile l’ergastolo al quale è stato condannato.

Appresa la notizia, l’anarchico ha deciso di interrompere, di nuovo, l’assunzione degli integratori, ribadendo, così, la volontà che continui la sua protesta contro il regime del carcere duro e di lasciare che il suo fisico vada alla deriva.

Ma sforziamoci di suggerire alcune riflessioni, che non ci sembrano scontate.

La prima condizione che consente di valutare l’aspetto più problematico del caso Cospito può essere riassunta in un’osservazione di fondo: Cospito non intende affatto suicidarsi, non intende morire per fare il martire; vorrebbe continuare a vivere, ma utilizza la propria vita come strumento di lotta al fine di ottenere, da parte dello Stato, un risultato, suscettibile di valere per lui e per un indefinito altro numero di persone: l’abolizione del cosiddetto regime carcerario del 41 bis.

In questa prospettiva ha scelto, come mezzo di pressione, di attuare una singolare protesta, che suona quasi come un ricatto: attuare ad oltranza uno sciopero della fame, magari fino alle estreme conseguenze, finché non sarà lo Stato a cedere, cancellando quel regime carcerario. Perciò, ha deciso di non assumere cibi o sostanze nutritive, perché l’eventuale sua morte per inedia sia avvertita dalla comunità come un estremo suo sacrificio per forzare l’assunzione di una decisione da parte dello Stato.

Si capisce subito che una tale situazione esula completamente dalle tematiche, tradizionalmente legate al problema della disponibilità della vita, dell’eutanasia, del suicidio assistito, dell’omicidio del consenziente ecc.

Occorre considerare che, nell’ordinamento giuridico italiano (così come di ogni Stato civile), esiste il principio secondo cui il diritto alla vita è connaturato alla persona umana e, in quanto tale, è indisponibile per eccellenza. Il bene della vita deve essere protetto (dallo Stato) a fronte di ogni eventuale atto lesivo, provenga esso da terzi o anche dallo stesso soggetto che ne è il beneficiario e il titolare.

In questo senso è la costante giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione: quello della vita è, insomma, un bene “inviolabile”( da parte di terzi) e “indisponibile” (da parte del suo stesso  titolare).

Semmai, la vita potrebbe cessare di essere un bene indisponibile solo quando la persona sia portatrice di una malattia che le provochi sofferenze insopportabili, anche sotto il profilo della propria dignità, e non esistano prospettive o speranze di miglioramento. Insomma, in estrema sintesi, solo quando la persona stessa abbia davanti a sé unicamente  un’aspettativa di dolore, di sofferenza, di insopportabilità, in un contesto di implorante attesa di una morte liberatoria.

Solo in questo caso, potrebbe (forse) concepirsi la configurazione di un diritto di una persona di pretendere la morte, quale unico strumento di cessazione di sue insopportabili sofferenze (fisiche o psichiche). Ma naturalmente, in questa sede, non si può neppure tentare qualche approfondimento su questa vastissima e delicatissima tematica. Ma, per far capire meglio lo specifico problema creato allo Stato italiano dall’atteggiamento dell’anarchico Cospito, è sufficiente ribadire che, nel nostro ordinamento giuridico, non è configurabile un diritto a morire. Lo Stato ha, perciò, l’obbligo di impedire il suicidio di un essere umano, se del caso, anche con la forza. Quindi, dobbiamo escludere la prospettabilità in astratto di un diritto a morire, a meno che  –  si ripete, pur con tutti i dubbi, anche di natura etica, che vengono riproposti in tutte le sedi – esso non venga preteso da un portatore di grave malattia irreversibile. Il principio generale, in sostanza, è che la vita è un bene che non è disponibile neppure per chi ce l’ha.

Consideriamo, ora, che Cospito intende solo mettere a rischio la propria vita, scegliendo, per propria autodeterminazione personale, di non assumere sostanze nutritive per diminuire  sempre più le proprie possibilità di sopravvivenza. Ma l’accettazione da parte sua di questo grave e rischioso equilibrio non è finalizzata all’eliminazione di insopportabili proprie sofferenze fisiche o psichiche, bensì è diretto a porre allo Stato una specie di ricatto, per costringerlo ad abolire un regime carcerario detestato dai detenuti (il 41 bis appunto). Cioè per indurlo ad assumere una precisa decisione di politica carceraria, da lui (e da tanti altri) ritenuta più consona. Può lo Stato accettare una tale sfida? Evidentemente no.

E come potrebbe fare lo Stato per risolvere questo grave contrasto fra l’(inviolabile) autodeterminazione personale di un cittadino e l’obbligo (di esso Stato) di impedirgli l’attuazione della morte volontaria?

A me pare che l’unica strada praticabile sia quella del cosiddetto stato di necessità (srt. 54 c.p.): necessitas non holet legem.

Nel caso considerato, infatti, esiste l’immanenza di un pericolo grave per la persona (la possibile morte di Cospito, conseguente alla sua prolungata volontà di non nutrirsi), pericolo che non può altrimenti essere evitato se non attraverso la commissione di un illecito (cioè la violazione dell’autodeterminazione personale del Cospito nel non nutrirsi).

Non si confonda questa soluzione con il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), i cui, ben diversi, presupposti sono lo stato di alterazione psichica nel soggetto da sottoporre al trattamento, il rifiuto a ricevere l’intervento dei sanitari e l’impossibilità di adottare idonee misure extraospedaliere.

Ciò premesso, vorremmo chiedere al Ministro della Giustizia: non trova che Cospito stia sfidando lo Stato con l’uso improprio del cosiddetto sciopero della fame? Non trova che lo Stato, che deve impedire, anche con la forza, le morti volontarie, abbia l’obbligo di non cedere? E non crede che, in questa situazione, sussistano i presupposti per intervenire con l’alimentazione forzata, ai sensi dell’art. 54 c.p.? Cosa si aspetta a far valere la dignità dello Stato con una soluzione capace di ripristinarne la volontà sovrana? C’è altra via d’uscita?

Uno Stato civile non può farsi condizionare dai gesti insensati di un suo cittadino.

Dopodiché sarà lo Stato, ma senza anomale pressioni, a decidere il regime carcerario più consono alle proprie esigenze di tutela.