«Sono sacrifici, è chiaro. Sacrifici pesantissimi a livello individuale. E che allo stesso tempo è costato anche al Governo imporre. Ma non c’era e non c’è alternativa». Così il sottosegretario al Ministero dell’Interno, il vicentino Achille Variati, alla luce delle misure restrittive adottate dal Governo per contenere il contagio da Coronavirus che prevedono, tra l’altro, l’indicazione di rimanere a casa il più possibile.
Per la prima volta intere generazioni vedono limitata la propria libertà come mai era avvenuto dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Non è pericoloso rispetto alla capacità di resistenza personale e della comunità civile?
«Quando ci si trova ad affrontare una pandemia, cioè un contagio globale che non conosce confini e barriere fisiche e che sfrutta tutte le vulnerabilità di un mondo globalizzato e perciò aperto, interconnesso, ipercollegato, la strategia più efficace in assoluto è quella di togliere al virus le occasioni e gli strumenti per diffondersi. Quegli strumenti siamo purtroppo noi essere umani. Quelle occasioni sono i nostri incontri, le interazioni sociali, i gesti di amicizia e di affetto, i momenti conviviali. È pesante, dal punto di vista politico, limitare le libertà individuali. Ed è terribile farlo dal punto di vista, se mi passa il termine, “umanistico”. Ma è il sacrificio che a ciascuno di noi è chiesto di fare. Per il bene collettivo, per preservare i più vulnerabili tra noi, per uscire il prima possibile da questa catastrofica crisi».
Lei come sta vivendo queste giornate? Quali pensieri la attraversano? Nei giorni scorsi era a Vicenza. Come ha trovato la sua città? Che effetto le ha fatto vedere le strade semideserte?
«Credo di viverla allo stesso modo in cui la stanno vivendo tutti. Certo, con delle responsabilità in più rispetto alla maggior parte dei cittadini. Ma ciò che vedo e ciò che provo è lo stesso. Lo stupore nel vedere le nostre strade vuote. Quelle della mia città, le piazze di Roma o di Milano, i monumenti che non hanno il consueto abbraccio di turisti e visitatori. I rumori diminuiti. Il ritorno della natura, con la moltiplicazione di uccelli, dei loro canti: un’immagine molto potente, che ci ricorda che siamo più fragili di quanto siamo abituati a pensare. Sono immagini e sentimenti che possono indurre, lo capisco bene, un senso di angoscia, di solitudine, di smarrimento. E allora è compito di ciascuno di noi utilizzare gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione, fare una chiamata o meglio una videochiamata, sentire i parenti, gli amici, i vicini, dedicare qualche minuto a chi è più solo».
Di fronte alla pandemia, l’Europa è attesa a una ennesima cruciale prova. Riuscirà a non fallire questa volta?
«Questo è uno dei temi cruciali. Anche per chi, come me, è un europeista convinto ci sono stati momenti di grande delusione e amarezza. È sembrato che l’Europa fosse tornata a quella sua modalità un po’ matrigna, capace solo di guardare ai numeri e all’austerità. Mentre qua in Italia cresceva una crisi sanitaria e poi sociale e produttiva che avrebbe potuto avere beneficio da un maggiore supporto. Poi, devo dire, l’atteggiamento è cambiato. In parte per la credibilità che questo Governo ha saputo costruirsi in Europa, tessendo relazioni e lavoro comune. Un po’ perché il contagio ha superato i confini nazionali. Spiace però vedere che altri Paesi europei non abbiano saputo far tesoro di quel che stava succedendo, con una decina di giorni di anticipo, in Italia. E che quindi si siano fatti trovare impreparati quando l’epidemia è esplosa in tutto il Continente. Ma in un certo senso, proprio questa crisi può essere l’opportunità per rivedere protocolli e modalità che mostrano la corda, per far rinascere un’Europa più vera e forte e coesa».
Quando pensa usciremo dall’emergenza? Che cosa si augura impareremo da tutta questa vicenda?
«Penso che la lezione per noi sia la stessa che auguravo all’Europa: ritrovare un senso di apparenza, imparare nuovamente ad essere comunità e a pensarci al di là degli egoismi e degli interessi individuali. Ed è anche da questo che dipende la fine dell’emergenza. Più penseremo non solo a noi stessi ma agli altri, ai deboli, agli anziani, al personale sanitario che è allo stremo, all’interesse collettivo, e prima ne usciremo. Non sarà rapido, non sarà indolore, ma ce la faremo. Insieme».