di Giovanni Valentini sul Fatto
“Domani è un altro giorno, si vedrà” (dalla canzone di Ornella Vanoni, scritta da Giorgio Calabrese – 1971)
Per il rapporto di fiducia che s’instaura tra l’editore e il direttore di un giornale dal momento della sua nomina, dobbiamo ritenere – fino a prova contraria – che Stefano Feltri fosse d’accordo con Carlo De Benedetti quando ha intimato le dimissioni al premier Conte in un editoriale pubblicato sul Domani martedì scorso, sotto il titolo “Questo governo non può continuare a gestire il virus”. Un ultimatum del genere esprime chiaramente la linea politico-editoriale di quel giornale e riflette l’orientamento della sua proprietà. E infatti, non è stato né smentito né corretto.
Tutto ciò non poteva non provocare, però, le dimissioni di Luigi Zanda, senatore del Pd, per manifesta incompatibilità con la carica di presidente del consiglio di amministrazione della società: “Ho compreso – ha riconosciuto lui stesso – di trovarmi in una posizione di conflitto politico-editoriale”. Da parlamentare dell’attuale maggioranza, non poteva condividere evidentemente l’attacco del giornale al presidente del Consiglio.
Ha fatto senz’altro bene Zanda a dimettersi. E ancor meglio avrebbe fatto ad ascoltare chi l’aveva avvertito in tempo che quel ruolo non sarebbe stato compatibile con il suo mandato. Non solo e non tanto per una questione di linea, quanto piuttosto di opportunità. Un parlamentare che fa il presidente di una società editoriale, quale che sia l’inclinazione politica, non giova né al suo partito né al suo giornale. Tanto più che il medesimo De Benedetti, ancor prima di fondare il nuovo quotidiano, aveva già reclamato l’estromissione del presidente Conte a costo di imbarcare Silvio Berlusconi e i suoi seguaci superstiti.
La verità è che, a differenza di Carlo Caracciolo, compianto presidente del glorioso Gruppo L’Espresso-Repubblica di cui Zanda è stato per diversi anni consigliere d’amministrazione, De Benedetti non è un editore e ormai non lo diventerà più. Finché è stato sotto la tutela di Caracciolo e di Scalfari, l’Ingegnere è riuscito a mantenere un aplomb politico-istituzionale, al punto da annunciare l’intenzione di prendere la tessera n.1 del Partito Democratico, senza mai versare peraltro la quota d’iscrizione. Ma CdB, come lo chiamavano i dioscuri del Gruppo, un padrone era e un padrone rimane.
Ne sa qualche cosa Ezio Mauro, l’ex direttore di Repubblica che successe a Scalfari dopo aver già diretto La Stampa della Fiat. Per De Benedetti, era l’uomo che doveva segnare una “discontinuità” con il primo fortunato ventennio di quel giornale. E Mauro ha saputo barcamenarsi abilmente con la “troika” del Gruppo L’Espresso, per fungere poi da ufficiale di collegamento con il nuovo gruppo Gedi guidato da John Elkann, il nipotino dell’“Avvocato di panna montata”.
Per giudicare le capacità editoriali di De Benedetti, del resto, basterebbe valutare la diffusione e l’inconsistenza del giornale che ha affidato al giovane Feltri, sebbene appena due anni fa proprio lui avesse addebitato all’Ingegnere l’“assenza di ogni vincolo etico” a proposito delle speculazioni in Borsa sulle banche popolari. In linea con la Confindustria, e con la stampa padronale, CdB non gradisce questo governo né tantomeno l’alleanza Pd-M5S. A lui non interessa più di tanto che il Paese si trovi nel pieno di una pandemia da cui non sappiamo se, come e quando il mondo uscirà. Né riesce a immaginare che cosa potrebbe accadere se il premier abbandonasse la nave in mezzo alla tempesta. Gli preme, piuttosto, illudersi di imporre il suo potere mediatico e di influire così sulla vita politica.