Covid, Il Fatto: “senza Crisanti non c’è più il modello Veneto”

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Luca Zaia ai Veneti
Luca Zaia ai Veneti

Andrea Tornago sul Fatto

C’era una volta il “modello Veneto”. Tanti tamponi, laboratori all’avanguardia, reagenti fatti in casa, caccia agli asintomatici. Quello che ha permesso al Nord-est di cavalcare la prima ondata, e ha fatto assurgere il leghista Luca Zaia al ruolo di governatore illuminato che ascolta gli scienziati. Ieri il Veneto ha registrato 774 nuovi casi, e nei giorni scorsi tra i 600 e i 700, su una popolazione che è meno della metà di quella lombarda. Come in altre regioni italiane, gli isolamenti dei contatti dei nuovi positivi sono crollati: per ogni infetto si riesce a rintracciare un solo contatto, ma per circoscrivere l’epidemia ne occorrerebbero almeno 10-15. Persino il numero di tamponi è cresciuto di poco rispetto alla prima fase della pandemia, sfiorando solo a volte quota 20 mila, ben lontana dai 50 mila tamponi al giorno promessi da Zaia nel maggio scorso.

Cos’è successo a Nord-est? Il declino della regione modello in realtà inizia mesi fa, ancora nel pieno della prima ondata, quando lo staff di Zaia comincia ad attaccare il professor Andrea Crisanti, direttore della microbiologia dell’Università di Padova e padre del “modello Vò”: ci sono le elezioni in vista e occorre che la Regione, messa in ombra dal professore venuto dall’Imperial College, si attribuisca la paternità della lotta al Covid-19 e della strategia vincente.

Nelle conferenze stampa quotidiane di Zaia vengono proposti altri esperti che si attribuiscono i meriti o propongono nuove ricette: funzionari regionali come Francesca Russo (dirigente capo della prevenzione sanitaria del Veneto, che per Zaia avrebbe redatto in tempi non sospetti un fondamentale “piano di sanità pubblica”), ma soprattutto il microbiologo Roberto Rigoli, primario dell’ospedale di Treviso, che a maggio inizia a sostenere che il Sars-CoV-2 si è “spento”. Per trovare il virus nei tamponi – sottolinea Rigoli, che è anche vicepresidente dell’associazione dei microbiologi clinici italiani – occorre “amplificare molto” il segnale, e spesso ci si trova di fronte a “pezzi di virus” e non a un Rna completo. Una narrazione che in quel momento piace molto alla politica regionale, e non solo.

Il dottor Rigoli diventa il nuovo riferimento della Regione, che gli affida l’incarico di coordinare le 14 microbiologie del Veneto, storicamente attribuito all’Università di Padova. Spodestando di fatto Crisanti, per tutti simbolo del successo epidemiologico del Veneto, che oggi ammette: “Ormai qui non conto più nulla, mi limito a gestire il laboratorio di Padova in cui assicuriamo l’analisi dei tamponi che ci inviano”. Allontanandosi da Crisanti però Zaia ha abbandonato anche una trincea fondamentale nella lotta al virus, quella dei tamponi e della sorveglianza attiva, che in primavera aveva retto efficacemente integrandosi con una sanità territoriale più presente e guarnita. Ormai la strada intrapresa dalla giunta veneta porta altrove: test rapidi e persino test “fai da te”, in via di sperimentazione, sempre nel laboratorio di Treviso.

A fine giugno il dottor Rigoli firma un documento in cui si introduce il concetto di “debolmente positivo” e si chiede di riconsiderare la “reale capacità di trasmettere l’infezione” dei positivi asintomatici o con pochi sintomi. Tra i firmatari figurano il professor Alberto Zangrillo del San Raffaele di Milano e il professor Matteo Bassetti di Genova.

Peccato che il metodo usato a Treviso sia tutto il contrario del modello Veneto: incentrato su macchine a “sistema chiuso”, in grado di processare pochi tamponi e dipendenti dai reagenti delle case produttrici (come accade in Lombardia), presenta non poche criticità. In agosto nel Trevigiano scoppiano focolai nei centri d’accoglienza, in grandi aziende, nelle Rsa, e in alcuni casi non si riesce a fronteggiare l’elevata richiesta di test, mandando i lavoratori in fabbrica anche in attesa dell’esito del tampone.

Tutto perdonato, Zaia vince le elezioni e sull’onda dell’entusiasmo sfida anche il Covid: “Il Coronavirus in Veneto non è più un’emergenza”. Ma i contagi impennano. Scoppia il caso Immuni, mai aggiornata con i dati dei positivi dalle Ulss venete. Il Veneto sembra tornato a febbraio, quando il direttore generale della Sanità regionale riteneva che la ricerca degli asintomatici, diventata poi la frontiera globale della lotta al virus, fosse una pratica suscettibile di “danno erariale”.