Crisanti-Zaia, la macchina della propaganda leghista e la querela di Mantoan da Corea del… Nordest: l’inchiesta de L’Espresso

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Zaia e Crisanti
Zaia e Crisanti

Di seguito l’inchiesta di Paolo Biondani e Andrea Tornago pubblicata su L’Espresso intitolata “Vietato mettere in ombra Luca Zaia: e la macchina leghista attacca Andrea Crisanti” che ripercorre la vicenda di questi mesi tra il presidente della Regione e il professore padovano

Lo strano caso del dottor Zaia e mister Zyde. Il primo è un politico abile e navigato, cresciuto nella regione più democristiana d’Italia: un leghista moderato e popolare, attento ai problemi del suo elettorato, capace di fare squadra, ascoltare gli esperti più autorevoli e limitare i danni dell’emergenza coronavirus. Quando getta la mascherina, però, Luca Zaia diventa mister Zyde: un negazionista che parla di «pandemia mediatica», si batte per riaprire tutto senza limiti, punta i piedi per ridurre a un metro la distanza di sicurezza contro il parere dell’Inail, attacca gli scienziati che lui stesso fino a poco prima elogiava.

Tra le due personalità del presidente della Regione Veneto c’è di mezzo un’altra emergenza: la campagna elettorale. Zaia cerca il terzo plebiscito, vuole essere rieletto al più presto, con la stella di eroe della lotta al virus, e per la sua propaganda ha bisogno di mister Zyde.

In queste settimane di ripartenza in salita il nuovo nemico è un professore, Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di microbiologia del polo ospedale-università di Padova. Crisanti è uno scienziato di fama internazionale: è stato il capo della sezione di malattie infettive e immunologia dell’Imperial College di Londra.

Dal giugno 2019 è tornato a lavorare in Italia. Dove dal gennaio scorso ha ispirato il “modello Padova”: tamponi a tutti i potenziali contagiati, anche senza sintomi; isolamento dei positivi. Una linea contrastata dai vertici della sanità veneta. In particolare dal direttore generale Domenico Mantoan, che in una lettera datata 11 febbraio (già pubblicata dall’Espresso) minacciava un processo al professore per danni erariali. Dopo il 21 febbraio, però, quando si scopre il primo focolaio a Vo’ Euganeo (e a Codogno in Lombardia), il presidente Zaia capisce di aver bisogno di uno scienziato come Crisanti e autorizza il suo piano: tamponi a tutti, grazie alle massicce scorte di reagenti acquistate in anticipo dal professore. Quindi il governatore diventa il primo propagandista della linea di Crisanti. Il politico illuminato dalla scienza.

Il divorzio si consuma in soli tre mesi. Il 21 maggio, per la prima volta, il bollettino veneto non registra alcun nuovo contagio. Crisanti fa l’errore di ricordare che «l’intuizione di cercare gli asintomatici ha pagato». Nella conferenza stampa giornaliera, esplode l’ira del governatore: «Attenzione a come si comunica». Da quel giorno al suo fianco comincia a comparire la dottoressa Francesca Russo, direttrice del settore prevenzione, sicurezza alimentare e veterinaria, che il presidente veneto presenta così: «È lei che ha fatto il piano dei tamponi».

Crisanti invece diventa «genio e sregolatezza», «un cavallo di razza che ogni tanto scalcia, morsica, sgroppa». Gli attacchi, diretti e indiretti, si moltiplicano. Il messaggio centrale è che il modello veneto non l’ha ideato Crisanti, come Zaia ripete più volte: «Il piano di sanità pubblica è stato presentato dalla dottoressa Russo ancora prima del 21 febbraio… Già a gennaio abbiamo messo in fila 14 laboratori per fare i tamponi, non solo Padova». E la dirigente conferma: «Per il Covid ho redatto quattro procedure operative per la fase 1, ora stiamo scrivendo la prima della fase 2».

A quel punto Crisanti perde le staffe: «Ho letto che la dottoressa Russo avrebbe avuto un piano tamponi già il 31 gennaio: questa è una baggianata. Lei questo piano non ce l’aveva, non c’era proprio l’obiettivo di cercare i pazienti asintomatici».

Di fronte alle opposte versioni, L’Espresso ha cercato i documenti. Che sono chiarissimi. Il primo piano della Regione Veneto per l’emergenza coronavirus è datato 11 febbraio e si limita a recepire le direttive del ministero: tamponi solo a soggetti in contatto con malati già accertati (in quel momento, solo due turisti cinesi) oppure a «persone sintomatiche di ritorno da Wuhan». Il primo documento regionale che parla di tamponi agli asintomatici è una delibera del 17 marzo, a firma dell’assessore Manuela Lanzarin: è l’atto che recepisce il progetto di «sorveglianza attiva» elaborato dal dipartimento di Crisanti. Un «piano di individuazione dei soggetti positivi pauci-sintomatici ed asintomatici», che chiama proprio la struttura di Padova a «fornire supporto a tutta la regione» per eseguire più tamponi possibile e «interrompere la trasmissione del virus».

Mentre la dottoressa Russo, di sorveglianza attiva, non aveva mai parlato. Anzi, il 28 febbraio, in un video delle aziende sanitarie, rassicurava così gli anziani: «Ho tranquillizzato i miei genitori dicendo tra l’altro che hanno già contratto l’influenza: al momento non abbiamo motivo di preoccuparci». E quali sono invece i casi da sottoporre a tampone? Risposta: «L’elemento cruciale è l’essere stato in un Paese a rischio oppure a contatto con un caso già confermato. Altrimenti posso assolutamente pensare che si tratti di un’influenza stagionale». Del piano per i tamponi di massa, nessuna traccia.

Quel 28 febbraio non è la giornata più felice per la comunicazione leghista. Lo stesso giorno, infatti, il governatore si trasforma in mister Zyde in diretta televisiva, sostenendo che i cinesi hanno molte più vittime dei veneti «perché li abbiamo visti tutti mangiare i topi vivi». Nello slancio polemico, il governatore sposa pure le tesi di Trump e Bolsonaro: «Questa è solo un’influenza, anzi una psicosi internazionale. C’è una pandemia mediatica vergognosa. Per noi le scuole possono tranquillamente riaprire».

Tornato nei panni di presidente della seconda regione italiana attaccata dall’epidemia, però, Luca Zaia autorizza Crisanti a fare i tamponi all’intera popolazione di Vo’. È il famoso test di massa che prova il ruolo-chiave degli asintomatici. Ma già l’otto marzo, quando il governo chiude la Lombardia e mezzo Veneto, torna in scena Mister Zyde: «Il nostro comitato regionale ha elaborato una relazione: consideriamo sproporzionato, esagerato, se non inopportuno inserire tre province venete nelle zone rosse».

Tre giorni dopo, il dilagare dell’epidemia costringe il governo a sigillare tutta Italia. Tra marzo e aprile, la crescita esponenziale manda in crisi anche la sanità veneta. Zaia confessa di aver vissuto giorni di terrore, con le terapie intensive prossime alla saturazione. E allora diventa il governatore dei tamponi. E il re delle mascherine: «Si dovrebbero rifiutare le cure a chi non le indossa». Prodotte da un’azienda privata, le mascherine con la bandiera veneta vengono regalate a tutte le famiglie. Anche se sono inefficaci: nelle avvertenze spedite ai medici (ma non ai cittadini) la stessa Regione riconosce che «non garantiscono la protezione degli utilizzatori, né il mancato contagio di soggetti terzi».

Il leader veneto della Lega ha anche il fiuto politico di prendere le distanze dalla Lombardia di Fontana e Salvini, accreditandosi come campione della sanità pubblica: «Siamo tra le regioni con meno strutture private, che sono soprattutto religiose». Quindi bolla come false le accuse di tutte le opposizioni (Pd e Cgil, Cinquestelle e comitati civici contro tagli e chiusure) di aver sacrificato gli ospedali pubblici a vantaggio dei privati. I dati però confermano le denunce. In Veneto, dal 2002 al 2019, gli ospedali pubblici hanno perso 3.629 posti letto, i privati ne hanno guadagnati 517. E dal 2013 al 2019 le terapie intensive pubbliche sono scese da 755 a 652, quelle private sono aumentate (solo) da 48 a 53. Come documenta la Corte dei Conti, il Veneto è diventato la terza regione con la più ricca sanità privata, dietro la Lombardia del sistema Formigoni e il Lazio, da sempre capitale delle cliniche d’oro e degli ospedali religiosi. Ogni cento euro spesi dai veneti per curarsi, in particolare, più di 40 vanno alla sanità privata: soldi pubblici versati dalla regione agli ospedali convenzionati (28 per cento del totale) e cure in clinica pagate dai cittadini di tasca propria (13%).

Anche i dati sul coronavirus mostrano che il modello è Padova, non il resto del Veneto. La città dell’ospedale-università, benché colpita per prima, ha moltiplicato subito i tamponi, isolato i reparti a rischio, ridotto i contagi. E ha avuto meno vittime di Vicenza, Treviso, Venezia e soprattutto di Verona, che ha fatto un decimo dei tamponi e ha il doppio dei morti. Ed è anche la provincia con i più ricchi ospedali privati.

La macchina della propaganda regionale però parla d’altro. La caccia allo scienziato serve a screditare chi può oscurare i meriti di politici e burocrati. E a cercare voti tra i cittadini esasperati dai divieti, ignorando i dubbi degli esperti. E così al dottor Zaia torna a sostituirsi il complottista Zyde: «Se il virus perde forza vuol dire che è artificiale». E le mascherine? Dimenticate, come decreta il presidente veneto nella nuova veste di eroe della ripartenza: «Dal primo giugno via la mascherina. Si indossa solo in luoghi chiusi».

L’emergenza elettorale ora impone di zittire le critiche. Un primario dell’ospedale di Padova, Costantino Gallo, è finito sotto procedimento disciplinare per aver scritto su Facebook che le mascherine di Zaia non servivano a niente. Essendo vero, l’accusa è stata archiviata.

Mentre il super direttore Mantoan, ora promosso a capo dell’Aifa e dell’Agenas, ha querelato per diffamazione il capogruppo regionale dei Cinquestelle, Jacopo Berti, colpevole di aver criticato il suo stop ai tamponi di Crisanti. «Se si fanno processi penali a chi pubblica notizie vere, cambiamo nome alla regione», ironizza Berti:

«Chiamiamola Corea del Nordest».


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