«L’errore di molti leader politici in questa fase (di crisi industriali, ndr) è quello di volersi sostituire alle aziende e ai sindacati: disintermediazione la chiamano quelli che se ne intendono. Ma le emergenze degli ultimi mesi dimostrano che le crisi non si risolvono così. Il governo quando gioca queste partite deve puntare al pareggio, non alla vittoria di qualcuno. Altrimenti a perdere è il Paese».
Giampietro Castano non riesce a dismettere la divisa di civil servant neanche quattro mesi dopo l’addio al ministero dello Sviluppo Economico, dove per oltre dieci anni ha guidato la task force sulle crisi industriali: la prima nomina firmata da Pier Luigi Bersani e poi le conferme dai successivi ministri (Scajola, interim di Berlusconi, Romani, Passera, Zanonato, Guidi, Calenda). Fino al mancato rinnovo del contratto deciso dall’attuale titolare del Mise, dopo otto mesi di coesistenza: «Ho avuto poche occasioni di confronto con Di Maio e mi dispiace perché forse avrei potuto dare un contributo in una fase così complessa come l’attuale», dice Castano che farà il consulente aziendale.
Il governo è stato preso in contropiede dai casi Whirlpool e Mercatone Uno. Si potevano prevenire?
«Era chiaro da tempo che la Whirpool faticasse nella competizione internazionale. A differenza di Electrolux, non ha saputo cavalcare la ripresa del 2017-2018, anche per ragioni oggettive quale, ad esempio, la fusione con Indesit. Ora bisognerà stare attenti agli altri stabilimenti».
Scusi, ma quando lei era ancora al ministero è stata varata una legge anti-delocalizzazioni.
«Sarebbe stata un’arma importante se avesse riguardato anche le delocalizzazioni all’interno della Ue, perché ormai costa meno produrre in Paesi tipo la Romania e la Bulgaria che in Cina. E poi le multinazionali che delocalizzano non si spaventano certo per gli aiuti da restituire».
Dicevamo di Mercatone Uno…
«La crisi della grande distribuzione già era stata avvistata, dura nel Paese e durissima al Sud. Catene commerciali di dimensioni grandi e meno grandi che danno lavoro a migliaia di persone, pagano l’eccesso di liberalizzazione e l’assenza di una politica per il Mezzogiorno».
Non è anacronistico parlare di piani per il Mezzogiorno? Anche la Lega parla di Paese unico.
«Appunto. Siamo un Paese industriale di primo piano, ma viviamo una divisione sempre più accentuata. Al Nord settori che vanno forte, come macchine utensili, moda, alimentare, mentre il Sud arranca, e i lavoratori che emigrano».
Qual è la ricetta?
«Al Sud non è più tempo di concentrazioni industriali nella chimica, nel cemento, nell’acciaio. Vanno messi sul tavolo alcuni grandi progetti nell’informatica, nella chimica fine, nell’agroalimentare, guidati a livello centrale. Le università del Sud sfornano ingegneri informatici di ottimo livello che, però, se ne vanno altrove. E pure gli imprenditori privati del Nord andrebbero incentivati a investire nel Mezzogiorno».
Incentivare imprenditori poco coraggiosi che hanno investito negli ex monopoli?
«Più che il coraggio gli manca la visione. Ancora non riesco a capire come si sia potuta dismettere un gioiello come la Magneti Marelli senza che il governo e l’opposizione battessero un colpo. Stesso discorso per la Castelli passata ai francesi»
Forse perché in Italia la politica industriale latita.
«Vero. E non mi si venga a dire che in Francia c’è dirigismo: si tratta della difesa dei patrimoni del Paese. In Italia l’ultimo esempio di qualcosa che somiglia alla politica industriale è stato il piano “industria 4.0”. Il ruolo della Cdp è molto importante e credo si possa imboccare la strada giusta, ma ci si può muovere anche agendo sulla leva fiscale oltre che sul capitale».
Anche le banche italiane non spiccano per visione…
«Purtroppo sono scomparse le banche d’affari. Le banche ora fanno di tutto, mentre servirebbe una capacità specifica nell’investimento industriale. Non possiamo lasciare tutto in mano a fondi di investimento che hanno una visione speculativa di brevissimo respiro».
Cosa rimprovera ai sindacati?
«Anche Landini dice che il sindacato del Novecento non esiste più. Non gira più la cinghia di trasmissione a doppio senso con la politica. Giusto dunque puntare al sindacato unico, ma a patto che non si risolva solo nella somma di tre burocrazie».
Come ha vissuto l’allontanamento dal ministero?
«Non parlo del governo. Dico solo che in Italia c’è un eccesso di radicalizzazione della politica, mentre il Paese avrebbe bisogno di forza calma».
di Marco Patucchi, da la Repubblica