Come molti altri Paesi, anche l’Italia sta attraversando uno dei periodi più difficili del secondo dopoguerra, nel pieno di una pandemia che sta mietendo vittime e, al tempo stesso, provocando una crisi economica da anni sconosciuta: gente che perde il lavoro, imprese che falliscono, persone che cominciano a percepire, addirittura, problemi di sopravvivenza quotidiana e che inseguono aiuti elargiti dagli enti caritatevoli; attività, in ogni settore, che si fermano e che non potranno più ripartire, ospedali stracolmi di ricoverati, obitori neppure più disponibili, financo impianti di cremazione al massimo della loro potenzialità di esercizio, scuole chiuse e funzionanti solo a distanza, amministrazioni pubbliche allo sbando…
In questo disastro, la cui fine neppure è data di intravvedere, i cittadini avrebbero almeno il diritto di fare affidamento sulla compattezza e sulla buona volontà della propria classe dirigente: quella scelta attraverso le urne, deputata a fare le scelte politiche per la tutela dei cittadini.
Tutti si sarebbero aspettati che, messi da parte, magari anche solo temporaneamente, i tradizionali rancori e le lotte partitiche, i politici si concentrassero sulle soluzioni per far ripartire l’economia, per arginare i danni, per eliminare l’inutile burocrazia, per rafforzare la sanità: insomma, per aiutare i cittadini ad uscire dal baratro e per dar loro una qualche speranza per il futuro; come era in tempi di guerra, quando si aveva la percezione della minacciosa presenza di un nemico comune da sconfiggere, per ricercare il bene di tutti.
Diatribe all’interno di ogni gruppo o comunità di qualsiasi dimensione sono sempre fisiologiche e inevitabili; ma, quando alle porte si presenta il nemico comune, tutti devono essere chiamati a difendere la collettività, senza esitazioni e senza distinzioni. I dissensi interni potranno riprendere, nella prospettiva di una crescita dialettica, solo dopo la sconfitta del nemico di tutti.
E, invece, no non sembra poter funzionare così.
Mai come ora i politici italiani sono divisi e sono in lotta, tutti contro tutti, su qualsiasi argomento e in qualsivoglia occasione, senza un minimo di ritegno. Tutti sollevano problemi, come se non ce ne fossero già abbastanza; tutti litigano, proclamano le loro ricette di soluzioni, denigrando quelle degli avversari; tutti sono diventati più bellicosi e rivendicano petizioni politiche: chi vuole una crisi di governo, chi richiede un rimpasto, chi ricerca nuove alleanze, chi, addirittura, pensa a nuove elezioni, chi si affanna a formare nuovi gruppi politici.
Insomma, anziché mostrare compattezza e ricercare seriamente una strategia operativa per salvare il Paese e difenderlo dal nemico comune, si acuiscono le divisioni e le ostilità, e i toni si fanno sempre più aspri, molto più del solito.
Ma quale è – si chiede il cittadino – il senso dell’inasprimento improvviso della contesa politica ? Perché la nostra “classe dirigente” si frantuma e si disunisce, anziché ricercare, ad ogni costo, una coesione di fronte al grave pericolo comune?
La risposta è semplice e purtroppo, mortificante: perché, ora, c’è la necessità di formare la task force per il Recovery Plan del Next Generation EU.
Tradotto in termini comprensivi per l’italiano comune, significa che, ora, c’è in vista l’intervento dello speciale fondo europeo, diretto a finanziare la ripresa economica del vecchio continente nel triennio 2021 – 2023 con Titoli di Stato europei (Recovery bond) che serviranno a sostenere progetti di riforme strutturali previsti dai Piani nazionali di riforme di ogni paese: i recovery plan, appunto.
Tradotto in termini ancora più comprensivi per tutti, significa che la “greppia” si sta rimpinguando, a seguito di una prevedibile pioggia di denaro proveniente dalla comunità europea e che la nostra classe dirigente non vuole rimanere fuori dalla gestione delle nuove risorse; ovviamente, nell’interesse del Paese!
Come si può notare, in questo sforzo spartitorio, di ideologico c’è ben poco.