ViPiù ha già raccontato come la Divina Commedia sia legata a doppio filo al Basso Lazio, tanto che le origini della stessa sono indubbiamente nelle pagine visionarie di un monaco di Montecassino. Eppure nessuno si sarebbe aspettato che qualcuno potesse aver ipotizzato che un altro poeta, molti secoli dopo Frate Alberico e Dante, facesse una passeggiata nell’aldilà. È quel che ha fatto Cristoforo Sparagna, pittore, poeta, romanziere e scultore minturnese.
Sparagna è nato a Minturno nel 1905, e nello stesso luogo è morto nel 1983. E nelle sue opere ha sempre celebrato la terra natia, in tutte le sue forme, principalmente esaltandone gli aspetti tradizionali e folkloristici che solo successivamente sono stati riscoperti e valorizzati dalla cultura di massa. Uno tra tutti è la figura della pacchiana, il costume tradizionale femminile diffuso a Minturno fino agli anni ’60 del ‘900.
Sparagna è più conosciuto come pittore e scultore che come romanziere e poeta. Le sue opere visive sono state esposte in varie parti d’Italia, incluso Milano e Roma, e sono arrivate negli Stati Uniti, a Philadelphia, Pennsylvania, e New Jersey.
Tra le opere che maggiormente hanno caratterizzato l’arte letteraria di Sparagna, c’è appunto Il regno delle anime (Edizioni Il Rifugio, 1976), una rivisitazione in chiave minturnese della Divina Commedia dantesca che seguiva una sperimentazione già avviata nella precedente opera Canti di Minturno. Scritta completamente in dialetto minturnese (un’interessante versione ormai arcaica), in endecasillabi in rima alternata. Impreziosita inoltre dai disegni a lapis dello stesso autore.
Nelle intenzioni del poeta c’era offrire un omaggio al suo paese, Minturno, spesso però chiamato col nome di Traetto (nome rimasto fino all’unità d’Italia, quando poi si è tornati al vecchio nome romano). Da leggere l’intera sezione 2 del canto 1 del Purgatorio, un po’ il manifesto programmatico dell’opera:
O Tea, tu che guidi gli miei canti
Mò a Traetto fermate co’ migo:
lassame usà glio mio linguaggio antico
ch’addora come i fiuri degli campi.
Sparagna ha strutturato l’opera relativa al suo viaggio di redenzione ultraterreno in tre cantici: Purgatorio, Inferno e Paradiso, aprendo proprio con il Purgatorio. In ciascuno dei luoghi che ha immaginato c’è stato un accompagnatore specifico: il politico di epoca fascista Pietro Fedele al Purgatorio, il poeta e scrittore medievale Antonio Sebastiani, detto il Minturno, all’inferno, e Maria, una sua amata, come la Beatrice di Dante, nel paradiso.
Nella sua visionaria immaginazione, Sparagna ha dapprima voluto che le anime minturnesi del purgatorio facessero, ad ogni calar della luna, un percorso che dall’antica Minturnae andava sulla collina di Traetto, fino a inerpicarsi sulla via Sinicata ed entrare nella città e portare gli omaggi alle cappelle votive. Anime in giro per il territorio, invisibili, ma comunque presenti.
La bocca dell’inferno minturnese è invece collocata sul Monte d’Argento. Esattamente dove sorge la torre mazzecata, l’antica torre di avvistamento medievale, speculare a quella tuttora esistente a Monte d’Oro, e distrutta malamente dalla seconda guerra mondiale. L’inferno minturnese è dunque a forma di cono capovolto, da cui si dipanano una serie di caverne in cui soggiornano i dannati. È un inferno esclusivamente traettese, popolato da personaggi locali o che qui hanno speso la loro vita. Ma è comunque collegato tramite un cunicolo con l’inferno universale.
È la parte maggiormente avvincente dell’opera visionaria di Sparagna. Proprio come Dante, anche lui ha incontrato decine di anime, e su molte di loro ha avuto non poco da ridire.
Molto interessanti sono invece le notazioni di cronaca locale. Una tra tutte quella relativa a Scauri, la spiaggia, vista come luogo di perdizione
“Non credete de sta’ sulla marina
de Scauri”, decette, “addò puttane
e le divote so’ de stesse lane”.
E il poeta che voleva scongiurare la costruzione del Lungomare, progetto di cui solo in tempi recenti si è avvertita la nefandezza:
“Ben te ricorderai quanno el pueta
Da te venette a scongiurà el dommaggio
Della rovina della nostra spiaggia
E tu mostrasti la tua faccia de creta
[…]
I’ me ricordo ancor quanno croccato
Me ne stào a sognà su’ una de chelle
De rena caora bionde cullinelle”.
Un artista anche precorritore di tematiche ancora lungi da venire, dunque. I suoi erano gli anni in cui si optava per espressioni artistiche più informali, ripudiando la tradizione. Sparagna invece intingeva i pennelli nella tradizione, seguendo uno stile neoclassicista, di ispirazione seicentesca (Caravaggio e Diego Velazquez su tutti). E forse proprio questo suo precorrere i tempi non lo rendeva compreso dalla popolazione locale. Ed è questo il tema de Il regno delle anime che maggiormente tocca il poeta: non essere benvoluto dalla popolazione del suo paese, alla quale ha invece donato tutto il suo amore e la sua opera artistica.
“Ohimmè”, pensai, “povero Traetto
Mio che a te tanto de amor piglia
Mia arte, e mia poisia che te mette
‘ncoppa a ‘nu tronu, ohimmè, che brutti figli!”
Le aspettative e le intenzioni dei versi iniziali vengono quindi smorzate da un percorso ultraterreno, nonostante tutti coloro che lo incontrano (dal Minturno a Dante) lo rincuorano e lo rassicurano dell’alto valore della sua poesia. Ma è stato un po’ il destino di Sparagna: essere ammirato dalla critica letteraria (Benedetto Croce, Italo Calvino ed Elio Vittorini hanno speso parole importanti per lui), ma non essere apprezzato dai suoi stessi concittadini. Forse proprio il Comune di Minturno dovrebbe dare impulso allo studio sull’artista, e magari realizzare un museo proprio nella casa che Sparagna si era costruito da
solo, scolpendo a mano ciascuna delle pietre usate.