Bisogna essere intellettualmente onesti su Cuba, e non solo sui fatti che stanno accadendo in questi giorni, ma, in generale, sulla storia dell’isola caraibica degli ultimi 70 anni. È difficile, certo, perché molti sono coinvolti non solo politicamente, ma, soprattutto, emotivamente con il mito di una Rivoluzione che sfida l’imperialismo del colosso americano e poi vince, rimanendo però ai margini degli Stati che contano, in una condizione di “isolata indipendenza”.
Cuba rappresenta, per certi versi, il Davide della geopolitica occidentale. Davide era un uomo saggio, un valoroso combattente, ma anche fine poeta e sognatore, un personaggio complesso, adorato dalla popolazione per la generosità nei confronti degli esseri umani, ma al tempo stesso temuto per la crudeltà durante le battaglie, che gestiva con spregiudicatezza politica, grande coraggio e quella autocritica che permetteva di riconoscere i propri errori. Tra le numerose imprese di Davide narrate nel Libro di Samuele, la più nota è quella in cui il giovane ebreo, che sarebbe diventato in seguito re d’Israele, sfida il gigante Golia, appartenente ai filistei, un popolo che infastidiva e terrorizzava gli ebrei.
Analogamente, nel 1959 alcuni rivoluzionari permisero al popolo cubano di riportare una clamorosa e simbolica vittoria contro il gigante imperialista americano, che terrorizzava e infastidiva tutta la popolazione sudamericana con governi fantocci e dittatori destrorsi che tiranneggiavano indisturbati con la segreta approvazione di tutto l’Occidente, quello che si vantava di essere liberale e democratico.
Fu senz’altro una prova di forza politicamente significativa, in un momento storico particolare, in cui il socialismo rappresentava ancora un modello possibile, certamente perfettibile, considerando l’esperienza della potenza sovietica, che pure aveva degli interessi, non solo simbolici, a mantenere un avamposto nel cuore del continente americano.
La Rivoluzione cubana, con i suoi protagonisti leggendari come l’avvocato Fidel Castro, il medico argentino Ernesto Guevara de la Serna, detto il Che, e il veneto Gino Donè Paro, il solo europeo ad aver partecipato alla spedizione del Granma, ha rappresentato per diverse generazioni il mito della liberazione, dell’impresa impossibile nel segno degli ideali di giustizia, di equità, di solidarietà, di autodeterminazione dei popoli e ha spinto numerosi uomini e donne di tutto il mondo a combattere accanto ad altri popoli, seguendo l’esempio dello stesso Che Guevara, diventato, dopo la sua morte, avvenuta in Bolivia per mano di sicari della CIA, l’icona più inflazionata della storia del merchandising mondiale.
È chiaro che se i proventi di quel merchandising globale, legato all’effigie mitologica di Che Guevara, fossero andati a vantaggio del popolo cubano, sicuramente le sorti economiche di quell’isola sarebbero state diverse, ma questo modo di ragionare liberista e imprenditoriale era del tutto estraneo a chi, come il leader maximo Fidel Castro, impose la nazionalizzazione delle proprietà straniere sull’isola, mossa che sin dal 1960 gli costò un gravoso embargo (bloqueo) da parte degli Stati Uniti, che ancora oggi, insieme a Israele, si ostinano a mantenere.
Nessuno mette in dubbio che nel corso degli anni la situazione a Cuba sia economicamente e socialmente peggiorata, in parte perché il sostegno dell’Unione Sovietica è venuto meno a partire dal fatidico 1989, in parte perché l’embargo ha privato la popolazione di numerosi beni che nell’isola e nei paesi amici non si producevano. Del resto, negli ultimi due anni di pandemia il turismo, grazie al quale i cubani vivevano e che oleava l’ingranaggio degli operatori grazie alle laute mance, si è fermato, e anche il sostegno economico della Cina si è notevolmente ridimensionato.
Tuttavia, i più nostalgici del Movimento del 26 luglio, che portò alla Rivoluzione del 1959, rimarranno delusi nel sapere che già dal 2006, quando Fidel lasciò il testimone a suo fratello Raul, vi erano state delle prime aperture di stampo liberistico con la possibilità di aprire aziende e vendere proprietà ritenute private. Nel 2018 Cuba è uscita dall’era Castro con l’elezione di Miguel Diaz-Canel, un uomo che non ha vissuto i momenti cruciali della Rivoluzione, un politico al passo con i tempi che, non solo ha contribuito a riscrivere la Costituzione cubana, favorendo la proprietà privata e l’ingresso di capitali stranieri, ma ha anche consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Ma Cuba è anche il paese che vanta un discreto e avanzato sistema sanitario, di cui non abbiamo bisogno di menzionare fonti, ma dovrebbe bastare il ricordo della generosità mostrata dal paese caraibico nel soccorrere l’Italia con medici e infermieri preparati nei momenti in cui la nostra sanità era al collasso. Cuba è anche il paese che, stando al Rapporto delle Nazioni Unite sul Programma per lo Sviluppo, è al primo posto per tasso di alfabetizzazione (l’Italia è al 54° posto) e al terzo posto nelle stime di Index Mundi (con l’Italia al 9°).
Per tutti questi motivi farsi un’idea delle proteste cominciate la scorsa settimana a Cuba non è semplice, si rischia di rimanere invischiati all’interno di una manipolazione emotiva, lessicale e ideologica da parte dei mezzi di comunicazione che non aiuta la comprensione del fenomeno in corso per noi che viviamo in un altro continente e in un altro sistema economico, alimentando pregiudizi e rafforzando preconcetti che sulla storia di quel paese già si possedevano.
Eppure, proprio in questi giorni non sfugge il paragone tra i fatti di Genova del 2001, avvenuti in una democrazia liberale moderna, quale era vent’anni fa l’Italia, e i fatti avvenuti nei giorni scorsi a Cuba in relazione alla gestione dell’opposizione e alla manipolazione che i mezzi di comunicazione generalmente operano sui fenomeni collettivi di manifestazione del dissenso.
A parte il clamoroso granchio preso da Roberto Saviano, il quale posta sui social l’immagine di una donna che, a suo dire, manifesta contro il regime castrista, ma viene smentito dalla stessa, la quale invece era a sostegno della Rivoluzione, ciò che risulta dagli atti della Corte europea dei Diritti dell’uomo, e difficilmente contestabile, è che in un paese liberale e democratico come l’Italia delle persone, raccolte intorno ad organismi e associazioni internazionali, che hanno manifestato pacificamente il proprio dissenso contro un modo sbagliato di governare il mondo, sono state selvaggiamente picchiate, ingiustamente torturate, hanno subito trattamenti inumani e degradanti.
E, purtroppo, anche i gravi fatti accaduti presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere dimostrano che anche nelle democrazie liberali, e non solo nelle dittature comuniste ancora in piedi, esistono delle zone d’ombra in cui i diritti vengono violati e la battaglia per un mondo più equo e più giusto non può assopirsi dietro i presunti livelli di benessere raggiunti da uno sparuto numero di persone.
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a cura di Michele Lucivero
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