La vera democrazia è nella scelta consapevole dei propri rappresentanti, nella possibilità di eleggere chi meglio interpreti le proprie idee, i propri sentimenti e soprattutto le proprie necessità.
Ma è un concetto, quello di democrazia, che, negli ultimi duemila anni, ha subito interpretazioni e applicazioni affatto differenti.
Nel momento di maggiore successo della corrente populista, si è sentito il bisogno di attaccare la ‘casta’ e di affermare il principio secondo il quale la funzione politica non può essere esercitata continuativamente dalle stesse persone. La politica, s’è detto diffusamente, non è un mestiere, ma una missione delicata e logorante, sempre in bilico sul filo del consenso popolare.
Così, ai partiti, che uniscono da sempre attorno a una certa ideologia comune, si sono affiancati i movimenti, che consentono una partecipazione popolare non più indiretta ma immediata all’impegno politico. Si è cominciato a esplorare le utilità della cittadinanza attiva.
Così si è ingenerata la convinzione che tutti possano intervenire in rappresentanza di tanti e ricoprire cariche istituzionali.
Che, cioè, ‘uno vale uno’.
Una concezione che trascura quanto sia preziosa la varietà degli impianti culturali, delle esperienze, delle aspirazioni e degli approcci ideologici. Quella varietà che porta ciascuno a ricavare per sé un ruolo diverso nella Comunità.
Spezzate le catene delle ideologie, ci si è convinti che sia sempre possibile cambiare pensiero, ragionare diversamente, secondo i nuovi contesti, le nuove contingenze, le nuove esperienze.
Cambiare intendimento e ritornare sui propri passi una volta compreso l’errore è una forma di libertà. Ed è importante, perché è un modo di liberarsi da vincoli formalistici e decidere al meglio e per il meglio.
Ma c’è un limite.
Quello dell’onestà.
Lo stravolgimento del proprio approccio di partenza, quello sul quale si sono costruite le certezze sulle quali tanti cittadini hanno espresso il consenso, in prossimità di una nuova competizione elettorale e in ragione dei mutati equilibri politici, è colpevole dismissione di responsabilità.
Il contesto attuale rende ancora più difficile parlare di democrazia e libertà di scelta.
Occorre riflessione. Occorre un pensiero articolato, libero dalle malìe degli slogan.
È il fattore cultura che fa la differenza.
Per rappresentare con serietà e giudizio il Popolo, è anzitutto necessario imparare a interpretarne le necessità, e, per conoscere i problemi, bisogna studiare, avere visione e saper programmare. Senza prese di posizione estemporanee e sganciate da un quadro progettuale ragionato.
Ogni progetto politico è un progetto culturale.
Allora l’impegno dei cittadini deve essere quello di favorire l’attecchire di un modo nuovo, della cultura del rispetto e dell’altruismo. Soltanto questo può sanare le debolezze.
Come diceva Einaudi, i partiti non sono il Popolo, sono uno strumento a servizio del Popolo, che dovrebbe poter comporre la migliore classe dirigente.
Scegliamo di scegliere secondo qualità, abilità, competenze, sensibilità, non secondo personale convenienza.
Perché ‘uno vale uno’ nella dignità, nel bisogno di protezione e nella libertà partecipativa.
Ma ‘uno non valga mai uno’ nel contributo che può apportare alle Comunità.
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Fonte: È SEMPRE LA CULTURA A FARE LA DIFFERENZA – 3 LUGLIO 2022