Da Stravinskij a Morgan, il disco di cantastorie dei vicentini Giannicaro

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La band vicentina Giannicaro nasce con la collaborazione di Carlo Carcano, che anche quest’anno è stato direttore a Sanremo (e si è fatto notare per la maglietta del gruppo metal italiano Fleshgod Apocalypse) e che ha prodotto artisti del calibro di Morgan e Marco Mengoni, e di Max Trisotto, che da sempre segue artisti come Milva e Vasco Rossi.

Dopo 3 anni di lavoro in sordina e un disco inciso che uscirà in primavera, la band è pronta per uscire allo scoperto e per cavalcare i palchi in tutta Italia (il 7 Marzo saranno a Macerata a suonare al Musicultura). Ne abbiamo parato con Giovanni Frison, cantante del gruppo.

«Il gruppo esiste da un anno –spiega Giovanni-, ma nasce dopo una ricerca di 3 anni e mezzo dei musicisti. Avevo le idee chiare sul progetto musicale. In un anno ho trovato tre musicisti e in due anni abbiamo scritto un disco. L’idea di base era fare un disco scritto come nella composizione tradizionale della musica classica, cioè scrivendo degli spartiti e dando ai musicisti delle parti che loro potessero eseguire. Quindi servivano musicisti capaci di leggere bene una partitura, che non è scontato, ma allo stesso tempo volevo che fossero in grado di aggiungere del loro a quello che io avevo scritto, cioè che interpretassero la musica, invece che eseguirla a bacchetta». 

«I testi sono il frutto di un lavoro molto lungo. Ho lavorato con una regista di teatro, Martina Testa di Milano, con cui ho scritto 9 testi ognuno dei quali trattava un tema a me caro. Tutto il disco è un concept album, cioè un grande arco narrativo spezzettato in 9 piccoli racconti. Da questi scritti io poi ho estrapolato quelli che sono diventati i testi veri e propri delle canzone, a volte tenendo anche solo il 10% del testo selezionato».

Il nome della band è proprio quello che sembra, cioè deriva da un celebre film d’animazione Disney?

«Gianni Caro è il padrone di Lilli nel cartone della Disney “Lilli e il vagabondo”, ma il riferimento in realtà non lo includeremo nel disco e non lo citeremo ai concerti. Gianni Caro simboleggia l’esigenza da cui è scaturito il disco, cioè portare a galla un problema che non riesco a risolvere, magari mettendomi in risonanza con altre persone che stanno vivendo lo stesso problema. In questo caso il tema è l’allontanamento dai sogni dell’infanzia. Tre anni fa mi son trovato a fare il segretario per alcuni mesi, ma io ho sempre voluto fare il musicista. Proprio in quei giorni, mentre facevo questa sorta di esame di coscienza, ho rivisto “Lilli e il vagabondo”, il primo cartone della mia infanzia, e mi ha molto colpito la figura di Gianni Caro. È un padre di famiglia, uomo medio perfetto, ha un lavoro, ha una casa, sta dietro ai cani, è un borghese, però non sappiamo niente di lui, non sappiamo quali siano le sue passioni, se sia innamorato oppure no, se sia felice oppure no, se da piccolo sognasse altre cose. È come una pedina, come mi sentivo io a fare il segretario, in un ruolo che mi impediva di manifestare quello che ero io davvero, cioè la parte sincera e intima di me. Mi sono rivisto in Gianni Caro, figura assolutamente secondaria, e mi sembrava giusto che il progetto portasse questo nome, perché questo disco è dedicato a lui e a quelli come lui».

Un invito a inseguire i propri sogni?

«Certo, ma soprattutto un invito a non prendersi in giro, a guardarsi allo specchio. Credo che spesso infatti non si riesca davvero a guardarsi allo specchio per rendersi conto di quanto si è onesti con se stessi e quanto invece no. Il desiderio più grande sarebbe che qualcuno che ascolta il disco si chiedesse “ma quello che sto facendo io della mia vita, era quello che volevo fare?”».

Quali sono i vostri punti di riferimento italiani e stranieri nell’approccio alla musica?

«I punti di riferimento sono tantissimi. Il mio secondo disco si intitolava “Mi sento influenzato. Etciù” ed era costituito da 16 brani ognuno dei quali dedicato a una diversa influenza che sentivo in quegli anni. In questo nuovo disco credo che ci siano almeno 20-30 influenze forti. Nella musica classica sento molto l’influenza di Stravinskij, da un punto di vista dei testi sicuramente De Andrè e Battiato. E poi c’è tutta la schiera di quell’indie che ormai viene quasi chiamata vecchia: “Baustelle”, “Luci della centrale elettrica”, “Ministri”, sono tanti.

Una diversificazione che riguarda anche il genere?

«Io credo che questo sia prima di tutto un disco di cantastorie, storie cantate. C’è stato un grandissimo lavoro fatto con Claudio Carcano che ha lavorato con Zen Circus, Mengoni, Morgan e Bluvertigo. Abbiamo cercato di fare in modo che l’arrangiamento di ogni canzone suonasse il più possibile con le parole del testo. Per esempio c’è un pezzo che si chiama “Il pianto scordato”, che racconta la storia di un personaggio che si è dimenticato come si piange e compie una serie di avventure alla ricerca appunto del ricordo di come si piange, e tutto l’arrangiamento è basato su un pianoforte scordato. Tutti i pezzi sono più o meno così: uno si chiama “Cose che non servono a niente” ed è costruito su suoni di cassa di supermercato. Il genere quindi è difficile da definire, si può dire pop alternativo, o indie sbagliato. Cantastorie credo funzioni di più».

Una mescolanza di stili che rappresenta le differenze dei membri della band?

«Veniamo da quattro mondi diversi e lontani. Il chitarrista, Daniele Asnicar, si è laureato in chitarra jazz. Il batterista e percussionista, Fabio Ferrante, viene da un contesto di percussioni classiche, Alessandro Bertoldo, il bassista, da sempre ha suonato nell’ambito pop-rock, aveva un gruppo con cui faceva cover dei “Muse“, e io invece vengo dal mondo della composizione e dell’elettronica sperimentale. Tre di noi sono diplomati al conservatorio. La cosa che ci ha avvicinato è la canzone d’autore. Ma anche qui per motivi diversi. Il bassista e il chitarrista si sono avvicinati tramite Fabio Cinti, un cantautore che ha vinto la targa Tenco. Io a 13 anni ho iniziato a scrivere le prime canzoni nascondendomi dal mio insegnante di composizione e mi sono avvicinato alla canzone d’autore per cui tutti e quattro alla fine ci siamo ritrovati in questo mondo».

Progetti per il futuro?

«La cosa che vorremmo più di tutte è andare a suonare in giro, portare questi pezzi alla gente».

Si può fare anche a Vicenza? Com’è l’offerta dei locali? E il pubblico è ricettivo?

«Io sono tornato da poco dopo essere stato due anni a Milano. Ho vissuto anche in Olanda. In qualsiasi città, grande o piccola che sia, c’è la possibilità di fare concerti, trovare qualcosa. Dove ci sono più opportunità c’è anche più concorrenza. L’importante è darsi da fare e proporsi. Un altro discorso da fare riguarda il pubblico, ma allora il problema non è di Vicenza, ma forse di una certa mentalità italiana, per cui spopolano i gruppi cover e tributo perché le persone preferiscono ascoltare musica conosciuta. In Olanda mi capitava sempre di andare ad ascoltare gruppi che non conoscevo in locali pieni di gente che a sua volta non conosceva il gruppo o il cantante che stava suonando. La mentalità era quella di lasciarsi stupire e scoprire cose nuove».

 

 

 

 

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