Dai paradisi fiscali Ue una “rapina” all’Italia da 7 miliardi all’anno: i dati di Missing Profits

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Lotta all’evasione, carcere, scontrini. Temi fondamentali. Eppure, il fisco italiano ogni anno subisce una perdita silenziosa che arriva sulle pagine di cronaca ciclicamente, ma per breve tempo e poi dimenticata. Per farla semplice: le multinazionali trasferiscono nei paradisi fiscali, europei e non, almeno 24 miliardi di dollari di profitti realizzati in Italia ogni anno. Una cifra che genera un mancato gettito fiscale di 7,5 miliardi di dollari, il 19 per cento di tutto quello che arriva dall’imposta sulle imprese. Gli ultimi calcoli, che integrano e precisano quelli di database già esistenti (Ocse e Orbis soprattutto), sono di missingprofits.world, progetto realizzati da Gabriel Zucman, economista francese che si occupa di disuguaglianze economiche e da due ricercatori danesi, Thomas Tørsløv e Ludvig Wier.

Il focus sull’Italia è interessante perché identifica anche i principali paradisi fiscali destinatari dei profitti (il dettaglio nell’infografica). La stragrande maggior parte sono nell’Ue:ç Lussemburgo su tutti, poi Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Malta e Cipro. Tre miliardi e mezzo di utili sono invece localizzati fuori dall’Unione: Svizzera (2,6 miliardi, pari al 3%), Bermuda, Caraibi, Porto Rico, Hong Kong, Singapore. Sono soprattutto tre i metodi con cui le multinazionali eludono il fisco: attraverso la manipolazione dei prezzi di esportazione e importazione all’interno del gruppo stesso (transfer pricing); il pagamento di interessi sui finanziamenti infragruppo; e infine con il posizionamento strategico negli altri paesi dei cosiddetti “beni immateriali”, come sedi dedite solo ai servizi. Dalle analisi dei tre studiosi emerge ad esempio che nei paesi a bassa tassazione le filiali estere delle multinazionali sono quasi sempre più redditizie delle imprese locali, e viceversa. Si sono accorti però che mentre in questi paesi il rapporto tra i profitti e i salari delle multinazionali era altissimo se confrontato con quello dei paesi ad alta tassazione, la differenze con i livelli di produttività e di capitale-lavoro era invece quasi inseistente. L’unica spiegazione, quindi (confermata poi dai dati) è che i profitti aumentano perché c’è una quota rilevante che arriva da fuori.

Si tratta di un vizietto che piace molto: a livello globale, infatti, circa il 40% degli utili delle multinazionali (pari a oltre 650 miliardi nel 2016) viene trasferito ogni anno in paradisi fiscali facendo risparmiare alle aziende (perdere alle casse dei governi dei Paesi a cui vengono sottratti) quasi 200 miliardi, il 10% delle entrate fiscali globali. Olanda, Lussemburgo&C. riescono poi nell’impresa di avere un gettito molto più alto di quello dei paesi a tassazione elevata. In Italia, Francia, Germania, Spagna e Usa, per esempio, le imposte sulle imprese rappresentano circa il 3 % del Pil, nei paradisi fiscali quasi il doppio o anche il triplo.

L’Ue ne esce oltretutto malissimo: “I paesi che non sono paradisi fiscali – si legge nello studio – risultano i più colpiti dalle pratiche elusive: il 35% dei profitti spostati, a livello mondiale, proviene dall’Ue”. Ovviamente, i big del digitale sono i campioni. “Google e Alphabet nel 2017 hanno riportato 23 miliardi di ricavi alle Bermuda dove l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società è zero” si legge. Secondo i dati del ministero dell’Economia, Google, Amazon, Airb&b, Twitter e Tripadvisor hanno versato nel 2018 al fisco solo 14,3 milioni di euro. La lista dei colossi italiani trasferiti all’estero è lunga, specie in Olanda (Fca, Cementir etc.). Ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha annunciato (in Lussemburgo) l’arrivo da gennaio di una “digital tax” sui profitti maturati in Italia. La misura c’era già nella vheccia manovra, ma è rimasta lettera morta (perché mancano i decreti attuativi). Vale 600 milioni di incassi l’anno.

da Il Fatto Quotidiano