Non saprei dire esattamente il momento in cui tutto è cominciato, ma di certo penso che possiamo considerarci al picco di un fenomeno di costume che monopolizza il dibattito recente, ossia quello a proposito del politicamente corretto e della presunta dittatura che esercita sulla nostra vita. Se mi avessero detto che il 2021 sarebbe stato l’anno in cui Damiano Coccia, in arte “Er Faina”, personaggio salito alla ribalta su Facebook per le sue raffinate invettive con lancio di accendino, e Aurora Ramazzotti, figlia di Michelle Hunziker ed Eros Ramazzotti, avrebbero dato vita a un’accesa querelle sul diritto dell’uomo di poter fischiare per strada alle donne avrei sperato che si trattasse di uno scherzo. E invece non solo questa cosa è successa – e ben venga che sia rimbalzata su tutti i quotidiani, sia diventata oggetto di ulteriore discussione e analisi in programmi radio, tv, dirette Twitch, e di spiegoni su Instagram – ma è anche diventata l’occasione per portare nuova acqua al mulino dell’indignazione di chi vede nel presente un’ondata censoria inarrestabile. Perché, stando ad alcuni commentatori della vicenda – e per “alcuni commentatori” intendo perlopiù quei fiumi di parole che si affastellano sulle riviste, sotto a qualsiasi post su Facebook o nei thread di Twitter – la richiesta da parte di una fetta del mondo femminile italiano di condannare la pratica del catcalling significa privare l’essere umano di una sua insindacabile libertà.
Le libertà di pensiero e d’espressione, infatti, oggi sono i temi centrali di qualsiasi conversazione, benzina sul fuoco di due schieramenti distinti che non comunicano per nessuna ragione e che alimentano una discussione che si estende su tanti livelli, da Er Faina a Ernesto Galli della Loggia. Ed è curioso che, proprio in concomitanza con questo dibattito, negli stessi giorni sia anche stata decretata ufficialmente la fine della censura cinematografica nel nostro Paese, lo stesso in cui molti gridano alla dittatura per qualche asterisco visto online e che dimenticano un intero secolo in cui in effetti, in molti campi, specialmente artistici, non si potevano dire diverse cose. A fare da ciliegina sulla torta di questo discorso spesso ai limiti dell’assurdo – soprattutto quando sono giornalisti affermati e importanti a diffondere notizie non veritiere sul tema, come è successo con Gramellini e la vicenda di Mozart – è un’espressione di cui sembrano essersi improvvisamente impadroniti tutti gli editorialisti dei maggiori quotidiani italiani: “cancel culture”. Un termine che vuol dire molte cose, e che in alcuni casi descrive anche fenomeni che esistono all’interno di dinamiche tipiche di internet, quelle per esempio in cui alcuni account in massa decidono di “cancellare” – stiamo comunque parlando di fatti che avvengono perlopiù online e che, in alcuni casi, possono avere ripercussioni concrete – un personaggio famoso che ha fatto o detto qualcosa che viene ritenuto sbagliato, ma che ha poco a che vedere con l’accezione italiana che si sta dando a queste due parole.
Piuttosto che focalizzarsi sull’entità reale della questione, ossia una pratica che ha molto a che vedere con dinamiche social di polemiche quotidiane e molto poco con eventuali vere e proprie damnatio memoriae perpetrate contro la cultura occidentale – o “linciaggi”, come vengono definiti da alcuni – in Italia abbiamo deciso di prendere in prestito questo modo di dire e usarlo a caso come se fosse un jolly sotto cui far ricadere qualsiasi episodio di “cancellazione”, e dunque anche di censura.
Sarebbe interessante quindi domandarsi cosa significa cancellare qualcuno o qualcosa nel 2021: credo che ci sia una sostanziale differenza tra ciò che succede negli Stati Uniti, dove dinamiche simili assumono forme molto diverse da quelle italiane – per esempio, il complesso caso di Woody Allen – e polemiche che hanno luogo perlopiù sui social e che consistono in fuochi di paglia che si spengono molto velocemente e con conseguenze pressoché nulle sui diretti interessati se non quelle di entrare in trending topic per qualche ora. L’elemento più interessante di questa tavola rotonda infinita in cui ciascuno, sia che si tratti di personaggi con seguiti enormi sia che si tratti di un qualsiasi utente su Facebook, si sente chiamato a dire la propria è che tutto ciò avvenga in Italia, un luogo in cui la Democrazia Cristiana – e prima di lei il fascismo, e prima ancora Giolitti – ha imposto per decenni standard su ciò di cui si potesse parlare nel cinema, nel teatro, nella televisione.
Prendendo in prestito il termine “cancel culture” e in generale un dibattito che – legittimamente per alcuni aspetti – ha senso di essere chiamato in causa in realtà ben distanti dalle nostre e in cui assume spesso solo la forma di una tendenza che riflette i consumi culturali, i nostri intellettuali, giornalisti, comici, presentatori e scrittori ci fanno più la figura dei copioni con la smania di fare gli americani che quella di fini pensatori cosmopoliti, come cantava in tempi non sospetti Renato Carosone. La censura cinematografica che il ministro Dario Franceschini ha infatti definitivamente abolito – dopo diversi anni in cui non veniva quasi più applicata – sostituendo la proibizione di una pellicola con la valutazione del bollino per l’età da applicare, è forse la manifestazione più concreta di quanto la questione della libera espressione abbia radici e attori ben diversi da quelli dall’attivismo social dei movimenti progressisti americani che, sebbene trovino un loro legittimo riscontro anche da noi, sono ben altra cosa da decenni di Giulio Andreotti.
Come si fa dunque a parlare di neonata dittatura del politicamente corretto in un Paese in cui la Chiesa e il suo partito di riferimento hanno influenzato direttamente e pilotato un’enorme fetta della produzione culturale dal dopoguerra fino ad almeno trent’anni fa? Mi sembra quantomeno doveroso, non dico da parte dei lettori e dei consumatori ma almeno di chi scrive e interviene in prima persona nei dibattiti, volersi interrogare su questo punto prima di sparare a salve usando termini importanti come “dittatura”. Va bene mettere in discussione le istanze del presente, va bene affrontare con ragione e razionalità vicende complesse e sfaccettate – come per esempio quella delle statue abbattute o del caso di Indro Montanelli – ma fare un discorso sul “Non si può più dire niente” senza tenere in conto l’influenza enorme che hanno avuto il bigottismo, il moralismo e la censura vera e propria – non gli “over party” di Twitter – sull’Italia del secolo scorso appare disonesto, oltre che miope.
Sulla storia della censura in Italia, esistono fior di studi e di analisi, indagini comprovate e resoconti su quanto è successo in termini di tagli e proibizioni a tutto ciò che concerne la nostra produzione artistica, e in particolare al nostro cinema. Un cinema che, sia ben chiaro, è riuscito a imporsi nel canone occidentale nonostante tutti gli sgambetti della Dc ma che, dati alla mano, ha subito moltissimi tagli, revisioni e cancellazioni: come si può leggere sia in un articolo di Emiliano Morreale che in un saggio di Enrico Gaudenzi per una mostra permanente sulla censura cinematografica, non tanto per quanto riguarda la proibizione postuma, che comunque molti film hanno subìto – ultimo caso quello del capolavoro di Ciprì e Maresco Totò che visse due volte, nel 1998, ma anche Totò e Carolina di Monicelli o La ricotta di Pasolini, giusto per citarne alcuni tra i tanti – ma semmai quella preventiva, più infima, sottile e meno ricostruibile a posteriori.
Tra le tante citazioni di Giulio Andreotti, infatti, è ben nota quella su Umberto D. a proposito del neorealismo italiano, un movimento culturale che ancora oggi costituisce un caposaldo del cinema del dopoguerra mondiale e che fu foriero di tecniche mai usate ed estetiche mai esplorate fino a quel momento: “I panni sporchi si lavano in famiglia”. Le aree di intervento della censura includevano anche la reputazione nazionale, oltre che il buon costume, la moralità, l’ordine pubblico, la messa in scena della violenza e i rapporti internazionali, tutti temi che venivano prontamente limati, eliminati, bloccati prima ancora che si potessero rappresentare. In particolare, fu proprio nel quindicennio dal dopoguerra fino al 1963 che questo ente di controllo della produzione cinematografica, così come fece il MinCulPop fascista, si occupò di ristabilire l’ordine dove film potenzialmente pericolosi per la tutela dell’equilibrio dell’establishment si palesavano sotto agli occhi attenti della Dc. Piuttosto che presentare al mondo l’Italia per com’era – povera, disgraziata, distrutta dal fascismo e dalla guerra – l’Italia rappresentata da Zavattini e De Sica, da Rossellini e Visconti, per la Dc era meglio virare su temi e stili più leggeri e scanzonati, intervenendo direttamente sulle sceneggiature – dagli anni Cinquanta in poi, infatti, non a caso hanno proliferato le commedie.
Mi sembra lampante che se proprio volessimo fare un discorso sulla censura, sulla libertà d’espressione e sulle cose che non si possono dire pubblicamente dovremmo prima guardare indietro al nostro passato e al modo in cui ci siamo formati da un punto di vista culturale e poi, preso atto di cosa significhi davvero “censura”, tirare le somme del dibattito presente. Negare del tutto che, specialmente a causa dei nuovi linguaggi che si veicolano tramite i social e del fiume in piena di argomenti e opinioni che li popolano, il clima del presente sembri spesso un costante “Chi va là” su chi dice la cazzata del giorno da trasformare in polemica sarebbe disonesto; allo stesso modo, dire che siamo vittime di una dittatura del politicamente corretto solo perché la realtà attorno a noi cambia, portando luce su temi e categorie prima marginalizzate, rendendo parole e comportamenti scorretti e obsoleti non solo è fuori luogo, è un’enorme idiozia, e la vicenda del catcalling ne è una dimostrazione concreta.
Il semplice fatto di avere un giornale, una trasmissione tv, un social network che ti consente di dire a un pubblico enorme che “Non puoi più dire niente” vuol dire che non è vero che non si può più dire niente. Piuttosto, sarebbe il caso magari di ricordare a chiunque si sentisse minacciato da restrizioni e bavagli che siamo un Paese in cui la censura vera e propria c’è stata per decenni, con forme e obiettivi diversi da quelli che potrebbe avere oggi, e che a prendersela per notizie finte o per essere gli zimbelli di Twitter per un giorno dall’alto dei propri editoriali non ci si fa solo la figura dei suscettibili permalosi, ma anche dei vittimisti frignoni, espressione che, guarda caso, a chi lamenta i danni della cancel culture piace molto usare per riferirsi a chi chiede un mondo meno intollerante.