Questo è l’anno in cui si celebrano i 700 anni dalla scomparsa di Dante, l’autore di quello che è riconosciuto come uno, se non il maggiore, dei capolavori dell’umanità: La Divina Commedia. Non mi dilungherò sulla discussione dell’opera, né sulle vicissitudini dell’autore. Voglio, tuttavia, puntare i riflettori su quella che è una parte poco dibattuta: le fonti della Divina Commedia, e in particolare, la fonte che alcuni hanno riconosciuto come primaria e cioè “La visione” di Frate Alberico.
Si tratta di un testo scritto – o forse più propriamente ‘prodotto’ – da un frate dell’Abbazia di Montecassino, nato a Settefrati – un paesino della Ciociaria – nel 1101, che già all’età di dieci anni era nel seminario del monastero benedettino.
Fu proprio a quell’età che, ammalato gravemente, il piccolo Alberico cadde in uno stato privo di coscienza che durò per nove giorni, con deliri e, appunto, visioni. In una di quelle visioni Alberico, come racconta lui stesso, fu preso per i capelli da una colomba e portato nei Cieli, dove San Pietro e due angeli “fattimi guida, si misero a mostrarmi i luoghi delle pene infermali”
La cosa incredibile di tutto ciò, è che moltissime delle scene immaginate – o viste, a seconda di come si vuol intendere l’accaduto – da Frate Alberico, rispecchiano le scene della Divina Commedia. A cominciare dalla presenza di una guida, continuando per la colomba che rapiva il frate (in Dante diventa un’aquila), e continuando così tra riviere di sangue, fiumi chiamati Purgatorio e concitati salvataggi (di Virgilio in luogo di San Pietro). Per esemplificare, ne riportiamo un passaggio:
“Vidi un gran fiume invece di pece che metteva capo nell’inferno sormontato di un ponte nel mezzo del quale, all’arrivar che facevano i peccatori, precipitavano nel fiume, e or galleggiando, ora affondando, tanto vi sono martoriati, fino a che, lessi come carni, loro viene fatta licenza di passare il ponte” (La visione di Frate Alberico, capitolo XI)
Sembrano proprio le stesse scene dell’inferno di Dante, in particolare il canto XXI, dove appunto nel fiume di pece vengono buttati i peccatori, “Non altrimenti i cuochi a’ loro vassalli /Fanno attuffare in mezzo alla caldaja/La carne congli uncin, perché non galli” (Inferno, XXI, vv. 55-57).
E si potrebbe continuare con un elenco di comparazioni a dir poco sorprendenti, almeno per un lettore poco addentro alle questioni letterarie perché è stato riconosciuto dagli studiosi letterari da moltissimi secoli che la Visione sia una delle fonti della Divina Commedia. L’unico appunto, però, è che tale riconoscimento resta piuttosto sottaciuto quando si studia Dante. Si potrebbe sfidare chiunque a dire se negli anni delle scuole superiori insieme alla Divina Commedia venga anche menzionata la Visione di Frate Alberico. E questo neanche nelle scuole di Cassino, lo dico per esperienza personale, proprio sotto il colle dove quella visione avvenne e fu raccolta.
C’è poi da chiedersi se Dante conoscesse veramente quello scritto. D’altronde si parla di un’epoca in cui le “notizie” si propagavano molto lentamente, senza contare che spesso nelle copiature venivano travisate: esiste una lettera di Frate Alberico stesso che lamenta come sia stato cambiato il testo della sua Visione (neanche ci fosse la mano di un attuale direttore di giornali solerte verso la proprietà…, ndr)). Ma le notizie eclatanti comunque riuscivano a diffondersi: la Visione divenne nel XII secolo molto popolare, diffusa in tutti i monasteri che, si sa, erano divulgatori di cultura dell’epoca (si vesa l’articolo su Montecassino e l’università di Cassino su ViPiù).
C’è, dunque, da considerare che Dante non solo era un intellettuale e come tale fruitore di cultura (come gli sarebbe potuto passare inosservato uno scritto tanto eclatante del secolo precedente al suo?). ma con tutta probabilità era anche stato personalmente presente nell’abbazia di Montecassino, quando per due volte era stato inviato da Firenze come ambasciatore presso la Corte di Napoli.
È dunque possibile che Dante, magari avendo udito del testo di Montecassino in Toscana – esisteva anche un convento benedettino nella sua terra – abbia poi voluto visionare (gioco di parole!) il manoscritto originale de La Visione. Manoscritto che per la cronaca è ancora nella biblioteca dell’Abbazia, scritto con antichissimi caratteri gotici.
Non sappiamo se le cose siano veramente andate così. Di sicuro le convergenze sulla struttura e la coincidenza di molte scene tra le due opere sono veramente enormi. Resta, però, da capire come mai la critica letteraria non abbia dato il giusto risalto all’antesignano della Commedia, quella Divina, e come mai tutt’ora non se ne parli adeguatamente, soprattutto a Cassino. Un’altra mancata valorizzazione del territorio, vien da dire!
Chissà che non possa essere una buona idea per l’Università di Cassino stessa, vista la presenza della facoltà di Lettere e Filosofia, organizzare degli studi specifici sulla Visione e sulle analogie tra due testi che ingiustamente o forsanco superficialmente non vengono accomunati. L’abbazia stessa, d’altronde, meriterebbe di acquisire un ruolo nel turismo culturale, oltre che in quello religioso e quello post bellico. Quest’ultimo destinato, fatalmente, ad affievolirsi nel tempo.