Sul decreto lavoro approvato il 1° maggio scorso dal consiglio dei ministri esistono pareri molto diversi, direi divergenti. E ci mancherebbe altro. Le diversità non derivano da opinioni ma da visioni diverse della società che si vorrebbe. Diversità che non è un azzardo definire ideologiche. Ebbene, premesso questo, io mi dichiaro in totale disaccordo con le affermazioni entusiastiche di chi è vicino al governo o ne fa parte.
Sono in disaccordo soprattutto quando si tende a parlare per slogan e quando, a mio avviso, si ha una visione che non tiene conto della realtà non dico solo del Veneto ma dell’intera nazione con le sue disparità. Alla dichiarazione dell’assessore regionale al lavoro, Elena Donazzan, riportata dalla stampa “è finita l’era dell’assistenzialismo. E chi non accetta di lavorare, non riceve un bel nulla” si potrebbe rispondere con un “inizia l’epoca della precarietà generalizzata per ogni lavoratrice e ogni lavoratore”, oppure “da oggi basta con l’assistenzialismo, solo elemosine” … e così via.
Perché, aldilà della questione “reddito di cittadinanza” esistono decisioni che preludono a un lavoro sempre più povero, non tutelato e insicuro in ogni senso. Chi lavora sarà sotto ricatto costante di perdere il lavoro o di vedersi retribuito in una maniera insufficiente a vivere.
Si parta dal concetto di “occupabile”. Significa che una persona è in grado di lavorare, certo, ma se non trova lavoro? Se il lavoro è mal retribuito dal momento che non esiste un salario minimo definito per tutti? Cosa succede? Si cade nella povertà senza poterne uscire se non accettando di lavorare in nero, utilizzando i voucher testé reintrodotti (non ci ricordiamo forse che, in pratica, servivano a legalizzare lo sfruttamento?), accettando condizioni di lavoro estreme per retribuzione e sicurezza, dovendo emigrare verso le regioni “più ricche” …
Soluzioni prospettate dal decreto lavoro appena approvato che, per fare solo un esempio, prevede la perdita dell’assegno di inclusione (che sostituisce il reddito di cittadinanza) se un componente del nucleo familiare che ne usufruisce non accetta in tutta Italia un lavoro “a tempo indeterminato o a termine di durata oltre i 12 mesi; un lavoro a tempo pieno o a tempo parziale non inferiore al 60 per cento dell’orario a tempo pieno; quando la retribuzione non è inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi. Se il contratto offerto è inferiore a 12 mesi, e comunque non inferiore a un mese, il luogo di lavoro non deve essere distante più di 80 chilometri da casa.” (fonte ilsole24ore.it)
Ora si ragioni, sembrano condizioni normali? Il minimo salariale per molti contratti è da fame anche se si lavora a pochi metri da casa, figurarsi se si deve cambiare regione. È la maniera di creare lavoro sempre più povero che non permette di sopravvivere.
A questo si unisce il concetto che traspare chiaramente che il rapporto di lavoro privilegiato sia quello a termine che viene liberalizzato togliendo anche i pochi vincoli oggi esistenti.
Se ci saranno più posti di lavoro saranno plausibilmente più precari e poveri. Proprio un bel risultato, non c’è che dire.
Sarebbe interessante uscire dalla propaganda e dai sorrisi di circostanza dello spot governativo ed entrare in tutti i meandri che compongono il decreto lavoro con un dibattito serio tra chi lavora e non tra gli “esperti” che popolano i talk show, generalmente personaggi che non hanno certo il problema di arrivare a fine mese. Ma questo non è, forse, possibile. E quindi è meglio fermarsi qua con un’unica “postilla”: quando si cita il taglio del cuneo fiscale e dei dipendenti che troveranno fino a 100 euro in più in busta paga, sarebbe giusto dire che quell’aumento è lordo, che su quello si pagheranno le tasse e che durerà solo 5 o 6 mesi. Dire che, forse potrà diventare strutturale è una frase che entra nell’alveo delle promesse. Che di solito non vengono mantenute.