Derivati, parte II. Cassazione dichiara nulli i contratti stipulati tra comune di Cattolica e BNL, ma sarebbe una “sentenza da maneggiare con cura”

559

Nell’articolo precedente sui derivati si riportava che 621 comuni italiani nel 2007 risultavano legati alle banche da almeno un contratto di questo tipo. Tra questi enti locali un comune che ha fatto giurisprudenza, se così si può dire, è quello di Cattolica. Il 12 maggio 2020, infatti, la Corte Suprema di Cassazione a sezioni civili riunite ha dato ragione definitiva al Comune romagnolo respingendo il ricorso della Banca Nazionale del Lavoro (BNL) in merito ad un contratto di Interest rate swap che in caso di chiusura anticipata sarebbe costato all’ente locale qualche milione di euro.

La suprema Corte è però andata oltre. E se qualcuno ha già gridato «vittoria» per questa presa di posizione della sentenza, altri hanno invece lasciato da parte le esultanze notando alcune lacune nel verdetto della Cassazione.

Ma facciamo qualche passo indietro prima di arrivare nel merito della sentenza n. 8770.

Il motivo per cui numerose amministrazioni locali si sono rivolte a strumenti così complessi come i derivati è semplice: servono soldi e servono subito.

Contratti derivati finanziari

In molti casi un derivato permette all’ente locale di incassare immediatamente una cifra – chiamata up-front – a titolo di premio per i rischi connessi alle operazioni di swap e questa somma, quando ancora la legislazione non regolava a dovere questi strumenti, non era inclusa nel debito pubblico.

Ancora più allettante era il fatto che l’up-front poteva essere immediatamente contabilizzato come maggiore entrata anziché come prestito determinando, quindi, una riduzione fittizia del disavanzo e un mancato aumento del debito. Con buona pace del rendimento che il contratto assicura – nella maggior parte dei casi – alla banca e che costringe le amministrazioni successive a sostenere.

Nel corso degli anni, viste le ingenti perdite che si stavano profilando per gli stessi contratti sottoscritti questa volta dallo Stato, si sono succeduti alcuni provvedimenti normativi per “calmare” la fame di derivati (che vide il suo exploit nei primi anni 2000).

Con la Legge finanziaria n. 448/2001 e il Decreto ministeriale n. 389/2003 veniva stabilito che le amministrazioni locali potessero sottoscrivere solamente alcune tipologie di derivato: Interest rate swap, Cross currency swap, Forward rate agreement e altri. Poi, nel 2007, si imponeva che le operazioni in derivati fossero finalizzate solo alla riduzione del costo del debito e dell’esposizione ai rischi del mercato.

Nel 2014 è stato,  invece, fatto divieto permanente di stipulare nuovi contratti derivati o rinegoziare quelli in essere, ad eccezione fatta dei casi in cui è prevista l’estinzione anticipata. Lo stesso “anticipo” che nel 2012 fece sborsare allo Stato italiano 3,1 miliardi di euro a favore della Morgan Stanley.

Qualche mese fa, il 12 maggio 2020, arriva, quindi, la sentenza della Corte di Cassazione che mette fine alla vertenza sui derivati tra il Comune di Cattolica e BNL iniziata nel 2010 con il tribunale di Bologna che dava ragione alla Bnl e la corte di Appello che ribaltava la decisione riformandola. a favore del comune di Cattolica.

Nello specifico la Suprema Corte conferma la decisione dell’Appello che sanciva l’invalidità dei contratti stipulati dalle amministrazioni che si sono succedute tra il 2003 e il 2004 e che hanno avuto effetti economici disastrosi per il bilancio del Comune romagnolo. La Corte di appello di Bologna – si leggeva, infatti, nella sentenza -: «Ha disposto la ripetizione degli importi, di tempo in tempo, corrisposti dalla Banca al Comune fino al 30 gennaio 2010 (€ 555.738,76) e da quest’ultimo alla prima (€ 1.031.393,17)». Praticamente lo swap prevedeva un flusso doppio rispetto a quello che l’istituto di credito doveva invece corrispondere al Comune.

E conferma anche che la stipula dei derivati doveva essere deliberata dal Consiglio comunale «in quanto (i contratti) prevedevano spese che impegnano i bilanci per gli esercizi successivi». L’iniziale up-front costituiva infatti «una forma di indebitamento per l’ente pubblico», ma questi contratti furono all’epoca firmati dal dirigente del settore economico della Giunta comunale a seguito dell’approvazione in Consiglio comunale solo di generiche linee d’indirizzo.

Infine la nullità è stata confermata anche perché al momento della sottoscrizione non fu determinato il valore dei derivati in questione. L’assenza di un riferimento ai «mutui sottostanti in relazione ai quali i negozi sarebbero stati stipulati» avrebbe quindi comportato la mancanza della causa del contratto. E analogamente «non poteva dirsi che i contratti fossero muniti di un oggetto avente i requisiti di cui all’art. 1346 cod. civ.».

«Una sentenza storica» esulta la vice ministra dell’Economia Laura Castelli: «E’ un’ottima notizia non solo per il Comune di Cattolica, ma per tutti gli Enti pubblici italiani che negli anni sono rimasti nella tagliola di questi strumenti finanziari».

Ma non tutti condividono il suo giubilo. Senza mezzi termini qualcuno scrive anche che la decisione della Suprema Corte è un «esempio sorprendente di come una sentenza possa generare più dubbi di quanti non ne risolva».

Un primo punto controverso starebbe nell’aspetto contenutistico. Per quanto riguarda la pronuncia di invalidità dei contratti, la Cassazione la giustifica, confermando le decisione della Corte di Appello, sostenendo che il cliente debba assumere l’alea (il rischio) consapevolmente. Per fare questo, sempre secondo la sentenza finale, un ente locale avrebbe dovuto avere conoscenza dei «costi impliciti» e degli «scenari probabilistici» che il derivato implicava, termini che però non trovano una definizione puntuale nel provvedimento giurisdizionale. Insomma, mancano le informazioni che il cliente, il comune di Cattolica in questo caso, avrebbe dovuto conoscere al momento della sottoscrizione dello swap per cui non si sa con precisione quali fossero.

A questo proposito Andrea Perrone, Professore ordinario di Diritto commerciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, parla infatti di «sentenza da maneggiare con cura». Scrive sul Sole 24 Ore che la Cassazione «dimentica che la funzione economica dell’operazione è, nella sua essenza, il trasferimento di un rischio e trascura che al contratto tra il cliente e la banca si accompagna di regola un ulteriore contratto, con il quale la banca trasferisce a un’altra banca il rischio assunto con la prima operando in una prospettiva di risk management». Dover definire l’alea a priori sarebbe quindi incoerente con la tipologia del contratto.

Un altro punto stabilisce invece che è il Consiglio comunale competente per il perfezionamento del derivato, in quanto l’indebitamento interesserà le successive amministrazioni. Ma anche qui la Corte rimarrebbe vaga. La sentenza si riferisce infatti al contratto concluso tra il Comune di Cattolica e BNL – che è solamente uno dei tanti tipi di derivato utilizzati -; mentre per questo aspetto parla di «delibere di accensione degli swap», con la presunzione quindi di regolare tutta la materia dei derivati. Poco sotto si riferisce ai contratti che prevedono un up-front. Ma anche qui: non tutti gli swap hanno necessariamente un trasferimento immediato a favore del cliente che sottoscrive il contratto con la banca.

Si sa, accontentare tutti è difficile. Ma intanto all’interno del programma 2020-2023 della Commissione d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario, approvato lo scorso luglio, è stato inserito un focus sui contratti derivati. «Da tempo in Parlamento – spiega al Sole 24 Ore la presidente Carla Ruocco (M5S) – chiedo di conoscere i motivi che hanno portato lo Stato ad uscite di cassa conseguenti alla stipula di derivati di oltre 5 miliardi di euro l’anno. Anche per gli enti locali è stato un salasso». Ci si auspica quindi che i lavori della bicamerale potranno portare un po’ di chiarezza laddove non è riuscita a farlo la Corte d’appello di Bologna, prima, e la Cassazione a sezioni civili riunite dopo.