di Michele Lucivero e Andrea Petracca
Sarebbe proprio il caso di affermare che «Uno spettro si aggira per l’Europa»…..
Il punto è che l’introduzione dell’obbligo di green pass per il personale scolastico e la normativa anti-Covid nuova di zecca, pur non allontanando il virus dalle nostre vite, rappresentano, di fatto, misure con cui si sta tentando di allontanare almeno dai futuri scenari educativi la Didattica a Distanza, considerata da più parti come il male assoluto della scuola italiana, l’abisso mai raggiunto dal punto di vista pedagogico.
Del resto, che il diritto all’istruzione sia stato fortemente penalizzato nell’ultimo anno e mezzo, svolto perlopiù a distanza, crediamo sia ormai un fatto acclarato, testimoniato sia dai dati sull’aumento della dispersione scolastica sia dal fatto banale che il nostro avatar digitale, con cui abbiamo provato a tenere in piedi alla bell’e meglio una relazione educativa con le nostre studentesse e studenti, si sia dimostrato inadeguato a trasmettere efficacemente saperi e competenze, considerato che il panorama radioso dei diplomati con voti altissimi è stato, infatti, spazzato via dall’esito disastroso delle prove Invalsi.
Si tratta di dati, ovviamente, talvolta contraddittori, talvolta costruiti in modo ideologico per fare dire ai numeri cose che i numeri da soli non possono dire, per cui lungi da noi andare alla ricerca di spiegazioni cogenti a senso unico sulle motivazioni dei disastri scolastici dell’ultimo anno, come se poi negli anni precedenti vivessimo nella scuola pubblica più bella del mondo.
Eppure, in questa sede vorremmo evitare il ruolo della Cassandra di turno e concentrarci su alcune domande che in modo per nulla ozioso si sono già palesate nella mente di molti addetti ai lavori: e se dovessimo tornare in DaD? Cosa saremmo in grado di offrire, oggi, alle studentesse e agli studenti? Di nuovo ripresenteremmo le stesse modalità, con annesso senso di alienazione quale appendice indesiderata di dinamiche educative scevre, ora lo sappiamo, delle essenziali componenti sociali dell’apprendimento?
Perché, in effetti, l’errore più grande che possiamo fare, alla luce delle misure che gli altri paesi europei stanno intraprendendo per arginare quella che pare essere ormai la quarta o quinta ondata, è pensare che il peggio sia ormai passato e che tutto sia destinato a ritornare tacitamente come prima, ripetendoci il ritornello di una scuola votata alla realizzazione di una personalizzazione impossibile degli apprendimenti, di un’inclusione che non c’è.
Ecco, come abbiamo sostenuto altrove, nella ricerca delle cause dei disastri educativi perpetrati nell’ultimo anno e mezzo, non vorremmo neppure accusare le piattaforme digitali su cui è andata in scena la scuola ai tempi del Coronavirus. Loro, le piattaforme intendiamo, esistevano già, erano già pronte all’uso e molte aziende multinazionali le utilizzavano già per le loro conference call, mentre noi, studenti, studentesse, ma soprattutto, docenti, le guardavamo in cagnesco come dei nemici ipertecnologici e ipermoderni da tenere a distanza, proprio come la maggior parte dei filosofi conservatori, tra cui anche Martin Heidegger, argomentavano, perlopiù attoniti e confusi, davanti all’incombere della tecnica e della tecnologia meccanica verso la prima metà del 1900.
Ma poi è arrivata la pandemia e, in maniera obbligatoria, ci ha costretti ad un certo livellamento nelle competenze digitali fra noi docenti, un livello, se non avanzato, quantomeno basilare di competenze che prima non esistevano affatto e che ha permesso di scoprire potenzialità nascoste, sulle quali è possibile esercitare la facoltà di scelta in base alla possibilità di raggiungere gli alunni e le alunne in condizione di difficoltà al fine di rendere la scuola sempre più inclusiva.
È ovvio che la differenziazione delle pratiche didattiche e delle modalità di valutazione rimane un punto fermo nella variazione dell’efficacia educativa.
Tuttavia, laddove la Didattica a Distanza, su cui rimangono ferme alcune nostre critiche, non è stata effettuata come mera e colpevole riproposizione di videosintesi prese da YouTube o con la pretesa di trasportare in modo puro e semplice la lezione frontale, peraltro priva del brusio di sottofondo d’aula, dentro GMeet, essa ha permesso a molti docenti di sperimentare alcuni approcci interessanti e proficuamente inclusivi, non prettamente legati ad aspetti tradizionali, del cosiddetto “programma da svolgere”.
Tutto questo, ad oggi, resta ancora valido, purché non si finisca col ritenere questi strumenti né esclusivi né esaustivi, ma, riprendendo più accuratamente quella che fu la lezione di Heidegger su La questione della tecnica[1] in una conferenza del 1954, si tratta di dispositivi, di mezzi, nelle mani degli esseri umani, dei docenti in questo caso, per realizzare dei fini concreti che dis-velano l’essenza delle cose.
Ciò che voleva dirci Heidegger, nel suo complesso linguaggio filosofico, è che la tecnica allora, così come il dispositivo della Didattica a Distanza oggi, non è che una pro-vocazione, con la quale l’essere umano, il docente in questo caso, costringe la natura che gli capita sotto mano, vale a dire la moltitudine dei suoi studenti e delle sue studentesse, a dare il massimo della sua energia, a mettere in moto le potenzialità, a pro-muovere e a spingere verso avanti la costruzione di un futuro che deve essere messo completamente nelle loro stesse mani.
Non lasciarsi cogliere da questa pro-vocazione che la Didattica a Distanza ci ha offerto nei mesi scorsi di pandemia, con la finalità nobilissima e necessaria di costruire una scuola più inclusiva, sarebbe un grave errore che non possiamo permetterci.
[1] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.
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a cura di Michele Lucivero
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