La memoria, la memoria. Sembra essere questo, da anni, l’imperativo etico del politically correct. Imperativo giusto, sacrosanto. Che ci arriva diritto da Primo Levi. Guai ai popoli e alle nazioni senza memoria, in balia del primo manigoldo che arriva. Bello e nobile il 27 gennaio (l’Olocausto). Bello e nobile il 21 marzo (le vittime innocenti delle mafie). Belli anche i diritti che le Nazioni Unite o l’Unione Europea non si stancano di coniare. Ma qui ci fermiamo per entrare nel particolare di queste “storie italiane”.
Perché la scorsa settimana sono venute a cercarmi separatamente due persone. Più giovani di me, tra loro si conoscono appena. Ma tutte e due si stanno misurando con un malefico aggeggio del nostro tempo. Che si chiama “diritto all’oblio”. È una cosa pensata per non marchiare a vita chi ha commesso un piccolo reato, o non inchiodare in eterno a un atto giudiziario chi abbia ricevuto suo malgrado una telefonata da un vecchio compagno di classe affermatosi nel crimine e bisognoso di un “piccolo favore”. Insomma, buoni e generosi principi.
Il guaio è che, come sempre in Italia, il diritto viene usato per trasformarsi in rovescio. Così si scopre che normalmente a pretendere l’oblio non sono persone condannate per una pipì contro il muro (anni fa fece scalpore il caso di un bravo insegnante radiato per un precedente del genere nella prima gioventù) o per essere finite di striscio in qualche storia giudiziaria senza colpa. Ma lo pretendono persone condannate per robusti reati compiuti nell’esercizio di funzioni pubbliche o persone che le storie imbarazzanti se le sono scientemente e ambiziosamente costruite con le loro mani da una posizione socialmente privilegiata. E poiché per riuscire a cancellare le tracce ci vuole tempo, ecco che, voilà, sono nate società specializzate nel dare la caccia ai colpevoli di una citazione sgradita. E in quel caso per i malcapitati (blogghisti o giornalisti, o addirittura tesisti, meglio se con le spalle scoperte) altro che oblio… Le società dell’oblio se li ricordano eccome, uno per uno. E li martellano, li assillano, creano (involontariamente, s’intende) un alone di intimidazione intorno alla contesa.
Chissà mai quanto potrà costare un processo o una causa a un povero diavolo di cronista locale. Così una delle due persone mi ha riferito di avere correttamente citato una sentenza, di avere perfino ottenuto un provvedimento in suo favore dal garante della privacy, di averlo esibito agli interessati, ma di essere lo stesso ancora perseguitata.
Un’altra persona mi ha riferito invece di avere ricevuto l’ingiunzione dell’oblio per una vicenda pubblica originata da una scelta (pubblicamente criticata) di un noto professionista riguardante la sfera politica, ossia quella considerata in America priva per definizione di diritti alla privacy. Che ci fanno quelle critiche ancora in rete? Rispettate il diritto all’oblio o agiremo legalmente. E rieccoci all’inizio. Per notare che, così come i diritti proclamati vengono tranquillamente calpestati in quasi tutto il mondo alla faccia degli organismi internazionali, altrettanto il valore della memoria viene calpestato da un diritto all’oblio che, di questo passo, arriverà con le minacce a impedire la memoria della storia pubblica locale. Non solo il diritto di cronaca, insomma, sarà colpito; ma anche il diritto di storia, il diritto di studio. Quatta quatta, la grande violazione arriva travestita da diritto per squassare il diritto vero.
La mia modesta proposta è dunque la seguente: ci sono cinquanta parlamentari di sani principi disposti a riversare nelle loro interrogazioni i casi e i nomi dei protagonisti che pretendono il bavaglio? Da quegli atti nessuno potrà essere rimosso. La democrazia poi saprà chi ringraziare per averla difesa. Gli altri invece, i nemici della memoria, ringrazino se stessi.
Nando Dalla Chiesa