Il Rapporto finale del 13 luglio 2020, quello che avrebbe fatto il punto sulla scuola nel periodo della pandemia per prevedere una ripartenza in sicurezza nell’anno scolastico 2020/2021, riportava come sottotitolo “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro”.
Il documento era stato commissionato dalla Ministra della Pubblica Istruzione, On. Lucia Azzolina, docente di Filosofia e Storia nei Licei, vincitrice di un concorso da Dirigente scolastico, la quale nell’aprile 2020 aveva istituito un Comitato di esperti presieduto e coordinato dal prof. Patrizio Bianchi, ordinario di Economia e Politica industriale presso l’Università di Ferrara, poi promosso egli stesso Ministro della Pubblica Istruzione nel momento in cui il 13 febbraio 2021 si è insediato il nuovo Governo presieduto da Mario Draghi, già banchiere di fama internazionale e ordinario di Economia e Politica monetaria in diverse Università italiane e straniere.
Non si citano a caso carriere e formazioni accademiche dei personaggi che ci governano, e soprattutto degli esperti che vengono chiamati a scrivere i documenti ufficiali della nostra scuola, giacché è lì che si giocano l’orientamento e la costruzione delle nostre istituzioni, la direzione che prende la nostra cultura in accordo ad una narrazione che viene ritenuta l’unica lettura possibile della realtà da fornire ai nostri studenti e alle nostre studentesse.
Non è un caso se, verso la metà dell’Ottocento, con la Legge Casati, e poi in pieno Novecento con la Riforma di Giovanni Gentile, era lo studio della filosofia, insieme allo studio del latino e del greco a concorrere alla formazione indispensabile della classe dirigente italiana, a prescindere dal fatto che essa fosse orientata verso professioni mediche, ingegneristiche o letterarie.
Oggi discipline come la filosofia, il latino e il greco sono considerate sostanzialmente inutili nell’ambito dell’organizzazione scolastica per lo sviluppo di un soggetto piegato alla logica del mercato e, si badi bene, si parla di sviluppo, non più di crescita di un soggetto, cioè di un processo di elevazione morale, culturale, intellettuale, spirituale e sociale, che può avvenire solo attraverso lo studio delle discipline umanistiche.
La pandemia ha clamorosamente accelerato un processo che stentava ad essere applicato a causa delle resistenze interne allo stesso mondo della scuola e non per partito preso, ma perché una parte dei professionisti e degli esperti della scuola, che sono poi quelli che lavorano nella scuola e si occupano della crescita dei soggetti in formazione, non comprendevano e non comprendono ancora la necessità di formare i loro studenti e le loro studentesse per il mondo del lavoro, per l’industria; non comprendono perché si debba pensare «Ad una scuola che riesca a formare lavoratori, critici e proattivi» così come riporta l’Allegato III (p. 91) del Rapporto finale sul Progetto STEAM (Acronimo di Science, Technology, Engineering, Arts, Mathematics).
Insomma, la pandemia ha azzerato ogni dialettica pedagogica e ha imposto un’accelerazione sull’innovazione, che dovrebbe consistere, in sostanza, nel potenziamento delle discipline STEAM per lo sviluppo nei ragazzi e nelle ragazze delle competenze matematiche, tecnologiche legate all’uso di un «pensiero computazionale» e al problem solving, di cui i nostri alunni, ma soprattutto alunne, sarebbero colpevolmente carenti.
Di fatto, nell’intento di potenziare le discipline STEM, alle quali si aggiunge surrettiziamente l’Arte, ma senza un’idea precisa di cosa sia e quale sia la funzione specifica dell’educazione artistica, i nostri esperti non fanno altro che traghettare la scuola italiana verso una doppia subordinazione. Da un lato, vi è la subordinazione ad un orientamento pedagogico anglosassone, accettato incondizionatamente, insieme a tutta la retorica dell’efficienza e delle Best Practices nelle nostre scuole, in virtù della sua presunta maggiore capacità pragmatica; dall’altro lato, con l’accettazione supina dell’appiattimento del curricolo sulle discipline STEM, vi è, di fatto, la totale subordinazione, a causa di un pregiudizio culturale, delle discipline umanistiche a quelle scientifiche.
Questa subordinazione, del resto, avviene nella sottesa convinzione che le materie umanistiche non siano utili al mercato del lavoro, a differenza di quelle ingegneristiche e informatiche, determinando di fatto una scelta che in futuro vedrà soggetti ignoranti in termini umanistici adoperarsi per costruire una società orientata in senso sempre più tecnologico, come se ciò fosse un’esigenza necessaria, e non una scelta di campo, dettata da un preciso obiettivo antropologico, etico, valoriale al fondo del progetto governamentale in atto.
Nei fatti, poi, ciò si concretizza nella continua sottrazione di ore di discipline umanistiche, comprese quelle di arte, che si sono progressivamente ridotte, al di là dei solenni proclami, in tutti gli indirizzi scolastici, dal liceo classico fino al professionale, a vantaggio delle discipline STEM, senza, però, che si sia riuscito a rispondere ad un interrogativo sostanziale e dirimente sulla questione, che Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della Pedagogia all’Università di Bergamo, poneva già nel 2015, prima dello scoppio della pandemia, quando si presagiva l’orientamento della scuola italiana, piegata alla logica del mercato, degli stakeholders e dei PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento) durante i quali mandiamo gli studenti e le studentesse nelle aziende per provare ad imparare un mestiere.
Si tratta di un interrogativo che, in realtà, andava posto a monte dello sfacelo della scuola pubblica della Legge 107/2015 (La Buona Scuola) e la dice lunga sulla prospettiva culturale dei nuovi esperti di Economia, Politica industriale e monetaria, anziché di Pedagogia: «Ad esempio, qualcuno è forse in grado di dimostrare “scientificamente” che una traduzione fatta da una lingua antica o dalle pagine di un autore moderno è un tipo di pratica cognitiva inadatta per conseguire risultati in termini di potenziamento delle capacità di ragionamento e di problem solving?»[1].
Negli ultimi anni l’affermazione di un orizzonte costituito dall’innovazione tecnologica, dall’introduzione delle tecnologie informatiche nell’insegnamento, tra l’altro dietro la retorica incipiente dell’aggiornamento metodologico, ha sbilanciato sempre di più il monte ore delle discipline oggetto di studio. Fatta eccezione per il curriculum del Progetto Brocca, dall’omonima commissione ministeriale istituita nel 1988, a distanza di 20 anni, dalla Riforma Gelmini in poi si è assistito ad un graduale ridimensionamento delle discipline umanistiche a tutto vantaggio di quelle scientifiche.
Condividiamo l’impressione, che era già nel 2015 di Scotto di Luzio, secondo la quale l’attuale prospettiva della scuola italiana sembri obbedire ad una economia della conoscenza che tende ad allineare la scuola al ritmo di una società che vuole solo lavoratori più flessibili, non soggetti pensanti e interroganti; di una società che vuole ingegneri abituati alla meccanica del problem solving, non umanisti abituati alla dialettica del problem posing. Al tempo stesso, l’economia della conoscenza o l’economia nella conoscenza vuole anche meno insegnanti nelle scuole e li vuole più efficienti, più veloci, che riescano a raggiungere prima e con più efficacia i loro studenti e le loro studentesse, quando è risaputo, da chi vive nella scuola, che la formazione ha bisogno di pazienza, di tempo, di cura, in un lavoro di continua individualizzazione e personalizzazione di contenuti e metodologie didattiche.
[1] A. Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, il Mulino, Bologna 2015, p. 100.
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a cura di Michele Lucivero
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