Uno studio dell’Institute of Gender in Geopolitics sul divario uomo/donna – afferma nella che pubblichiamo Sara Astorino, legale, consulente dell’associazione Aduc (qui altre note Associazione per i diritti degli utenti e consumatori su ViPiu.it, ndr) – osserva che, a livello globale, nel 2020 le donne costituiscono il 70% dei lavoratori poveri, l’83% dei lavoratori part-time e il 62% dei lavori non qualificati (1).
La profonda diversità di condizioni di lavoro, e non solo di salario, è una realtà anche in Italia. Disparità che riguarda il settore pubblico, quello privato e la libera professione.
Anche un’analisi Eurostat, che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda (Gender gap adjusted), ha evidenziato come in Italia la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%.
A ciò si aggiunga che i dati dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica, hanno evidenziato che lo scarto nello stipendio netto mensile a cinque anni dal conseguimento della Laurea Magistrale è di oltre 500 euro tra uomini e donne: 1.969 contro 1.403 euro.
La situazione, secondo il Gender Gap Report 2021 di Job Pricing, peggiora anche a parità di mansioni. Lo stipendio lordo annuo delle donne è inferiore dell’11,5% rispetto a quello degli uomini, divario che cresce con l’aumentare dell’istruzione.
La realtà di una libera professionista
Oltre i dati statistici, anche basandomi sulla mia realtà, direttamente e indirettamente, la differenza di salario è perché la donna viene considerata meno preparata rispetto all’uomo, con ancora viva la convinzione che sia la donna a dover rinunciare alla propria carriera.
Una volta, ad un colloquio di lavoro presso un collega avvocato, mi è stato chiesto se ero sposata e soprattutto se avessi avuto intenzione di avere bambini.
Non è leggenda metropolitana, ma una donna viene sempre chiamata Dottoressa mentre un uomo è sempre e comunque Avvocato.
Ennesimo episodio, udienza in Tribunale, io, Avvocato da anni, accompagnata da un oggi Collega che all’epoca svolgeva tirocinio. Il giudice: “Lei è per la pratica forense, vero?” e, alla mia risposta negativa, il giudice non poté celare lo stupore che un donna fosse dominus.
Non pronuncio accuse di sessismo o altro, ma narro piccoli episodi che, ripetuti nel tempo, spiegano il divario.
Ancora. Al momento della creazione della famiglia è sempre la donna a dover rinunciare alla propria carriera oppure metterla in pausa. E non si tratta di scelta della coppia, ma necessità dettata dalla legge… in Italia il congedo parentale concesso alla donna supera di gran lunga quello degli uomini. Libera scelta? Difficile!
Inoltre, in Italia, salvo rarissime realtà, non esistono asili nidi all’interno dei luoghi di lavoro, e con un figlio che è quasi sempre accudito dalla mamma, la scelta obbligata è il part time.
Anche le aziende, per donne non sposate o senza figli, hanno sempre il pregiudizio di assenze più frequenti per l’accudimento della famiglia, magari per prestare assistenza ad un genitore malato.
Un divario che non può essere semplicemente ricercato nelle quote rosa (a cui sono contraria), ma col passaggio dalla parificazione del congedo parentale e creazione di nidi e spazi, anche all’interno delle aziende private e/o pubbliche, che possano accogliere i bambini.
Sara Astorino, legale, consulente Aduc