È a partire dagli anni 2000 che si è cominciato a parlare con sempre più insistenza di reddito di cittadinanza, reddito universale, reddito minimo di sussistenza oppure di reddito minimo garantito[1]: tante formule linguistiche per esprimere, in fondo, un’urgenza sociale che cerca di pensare strategie per arginare i disastri generati dalla profonda trasformazione del mercato del lavoro, voluta e architettata sia dalla politica di centrosinistra sia da quella di destra, di cui Elena Donazzan, assessora al lavoro in Veneto, è degna espressione.
Ed è già di per sé estremamente significativo il messaggio che il governo ha voluto lanciare mettendosi a lavorare il 1° maggio proprio sul decreto lavoro, dimostrando con una protervia raccapricciante e senza precedenti che è arrivato il momento di smantellare, insieme alla Festa di Liberazione dal nazifascismo del 25 aprile, anche la festa dei lavoratori, soprattutto quelli dipendenti e salariati, non quelli che possono decidere liberamente e ideologicamente quando fissare i lavori parlamentari, peraltro profumatamente retribuiti.
Ovviamente, l’assessora Elena Donazzan plaude all’iniziativa del governo e ai contenuti del decreto lavoro, quello che archivia definitivamente il reddito di cittadinanza in favore dell’assegno di inclusione, dichiarando, in sostanza, che chi non accetta di lavorare, non è degno di ricevere un bel nulla e che devono essere archiviate, insieme alle festività comandate, anche tutte le pratiche definite “assistenzialistiche” poste in essere dalla macchina dello Stato.
C’è da riflettere in maniera profonda sulle parole sempre più abusate dai nostri politici e sui messaggi che attraverso quelle parole essi cercano di veicolare. Sostenere, infatti, nelle sue molteplici varianti, l’assunto secondo il quale «chi non accetta di lavorare non riceve un bel nulla» non è semplicemente un assunto economico su cui poter decidere come spendere i soldi dello Stato, cioè di tutti i contribuenti, ma una precisa presa di posizione che sottende un gioco di forze o di potere tra chi detiene la ricchezza e chi, invece, non avendo altro che la nuda esistenza, deve necessariamente lavorare per sopravvivere.
Sia chiaro, la dinamica che quell’assunto prefigura ha un senso solo se accettiamo, non tanto i fondamenti dell’economia di mercato, quella che regola i prezzi in base alle variazioni della domanda e dell’offerta, quanto il capitalismo neoliberista, vale a dire il fatto, inteso come irrinunciabile, secondo il quale vi debba essere un’accumulazione naturale di denaro che cresce a ritmi incontrollati da parte di chi detiene i mezzi di produzione.
Questa sperequazione economica e sociale, questo dissesto globale, che ha storicamente soppiantato l’economia di sussistenza, quella in cui tutte le terre e i beni naturali erano in comune e la povertà non era un concetto plausibile, dal momento che i bisogni di ciascuno avevano immediatamente la loro soddisfazione nella produzione di sostentamento, genera poi necessariamente l’urgenza di garantire livelli minimi di assistenza a chi è stata tolta la fondamentale possibilità di autosostentarsi.
L’assunto di Elena Donazzan, dunque, sottende un principio morale e politico molto articolato, espressione di una visione paternalistica e liberistica che andrebbe esplicitata con più coerenza nella formula: «chi non accetta di produrre per la ricchezza di altri non riceve nulla», mostrando in maniera più netta i rapporti di forza tra chi detiene il potere e chi deve subire passivamente.
Non solo, la dimostrazione che l’assunto di Donazzan ha senso solo se accettiamo come naturale il capitalismo di appropriazione e sfruttamento come orizzonte naturale di comprensione della nostra economia sta nel fatto che le misure che questo governo prevede per compensare la rimozione del reddito di cittadinanza consistono nel taglio del cuneo fiscale, cioè in uno sgravio per il datore di lavoro, misura che, sostiene anche Donazzan, porterebbe più soldi in busta paga ai/alle lavoratori/trici, ma anche meno soldi nelle casse dello Stato, aggiungiamo noi.
È vero che Elena Donazzan e tutto l’impianto di destra ha dalla sua parte la logica consolidata del liberismo attuale, vale a dire la possibilità di dire senza alcun contrappunto logico che «misure più valide per avviare il lavoro» sono riposte, ad esempio, «sul bonus per i datori che assumono gli occupabili con contratto a tempo indeterminato». E non solo non vi è un contrappunto logico, ma nemmeno politico, giacché la misura dell’assunzione a tempo indeterminato sarebbe anche un bel traguardo sociale, se quel posto di lavoro venisse realmente garantito e conservato dal/dalla lavoratore/trice.
Ma la realtà, purtroppo, è che l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori rende ridicola e beffarda agli occhi dei più avveduti l’affermazione di Donazzan, tanto più che l’abolizione delle tutele contro il licenziamento illegittimo, ciò che era previsto dall’art. 18 con una legge del 1970, è stata voluta dal governo di Matteo Renzi, che si dichiarava di sinistra, per cui è chiaro che qualsiasi critica mossa dall’attuale centrosinistra al centrodestra è puramente strumentale e meramente elettorale, giacché essi condividono l’impianto di fondo del liberismo capitalistico, che trasferisce più potere politico ed economico a chi detiene i mezzi di produzione.
Dispiace constatare poi che la retorica sul divanismo indolente di chi non vuole lavorare, che va di pari passo con una crescente colpevolizzazione della povertà, sia ampiamente accettata dalla mentalità comune, alla ricerca continua, affannosa e competitiva, ma perlopiù deludente, di affermazione talentuosa, ideologia alla quale addestriamo i nostri ragazzi e le nostre ragazze sin dai primi anni di scuola. Peccato che coloro i/le quali vengono indottrinati/e dal mainstream mediatico all’ideologia del merito, alla logica che esalta il successo di chi si mostra solerte perché ha potuto scegliere liberamente quale fulgida carriera professionale intraprendere, ignorino che tutto ciò comporta lo smantellamento definitivo del Welfare State, cioè di quelle misure che dovrebbero garantire a tante persone che non hanno la possibilità di scegliere dei livelli minimi di esistenza e assistenza.
Anche in questo caso, vorremmo rilevare che definire «assistenzialismo», come fa Donazzan, le misure di assistenza sociale, tra cui anche il reddito di cittadinanza, che si rende necessario a causa degli sconquassi generati dalla crisi del mercato e dalla precarizzazione del lavoro, non fa altro che richiamarsi ad un artificio retorico peggiorativo che tende a risemantizzare un diritto costituzionale previsto dall’art. 38: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Ma non deve stupire: quelli che parlano di “assistenzialismo” sono gli stessi che accusano di “buonismo” chi soccorre i migranti in mare, come se accogliere chi è in difficoltà e in pericolo di vita fosse un difetto di cui vergognarsi.
Siamo di fronte ad un attacco deliberato, non solo contro la Costituzione italiana, ma contro i valori fondamentali dell’umanità, della solidarietà, della pace sociale, a fronte di una sempre più sospinta retorica di guerra, di competizione e di belligeranza. Non stupiamoci se ci troveremo a breve coinvolti in altri gravi e devastanti conflitti armati.
[1] A, Mantegna, A, Tiddi, Reddito di cittadinanza. Verso la società del non lavoro, Castelvecchi, Roma 2000.