E, alla fine, come qualsiasi quaestio de quodlibet medievale che si rispetti, dopo l’accesa disputatio degli allievi, arriva puntuale la determinatio magistralis del filosofo Cacciari che non rinuncia a fare il maestro.
Massimo Cacciari, dunque, non si sottrae alle numerose critiche giunte dai suoi colleghi e dalle sue colleghe, da allievi e allieve, da giornalisti, medici e giuristi e rincara la dose con un articolo affidato a «La Stampa» il 2 agosto 2021, in cui, appunto, chiarisce la sua posizione, accorciando sempre più la distanza tra il suo pensiero e quello di Giorgio Agamben, al quale strizza l’occhio.
E Cacciari accorcia la distanza facendo il punto su quello che è il tema centrale ormai da decenni del suo collega, cioè la questione dello “stato d’emergenza” o “stato d’eccezione”, ma anche servendo su un piatto d’argento la citazione, rigorosamente a braccio, di un filosofo caro ad entrambi (e anche a noi), cioè Gilles Deleuze sull’instaurazione di un regime, un’«intesa mondiale per la sicurezza», per gestire la pace dei cittadini e delle cittadine, fondandola sulle paure, sulle angosce, sulle ansie da III millennio.
Capiamo, dunque, il disorientamento di chi non ha frequentazioni filosofiche in generale, meno che mai con i testi dei due autori in questione, che non sono affatto lineari e di semplice consultazione, ma che Cacciari stesse prestando il fianco con argomentazioni superficiali e fallaci ai destrorsi no-vax urlanti nelle piazze, che un tempo erano no-mask e prima ancora negazionisti del virus, era da escludere sin dall’inizio, considerando quelli che sono gli interessi politici, speculativi e critici dei due autori, ai quali qualche collega vorrebbe anche revocare la patente di filosofi!
E, allora, sicuramente la nota congiunta di 2800 caratteri spazi inclusi dei due filosofi, pubblicata il 26 luglio 2021 sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, sarà apparsa senza dubbio spregiudicata nei modi, dirompente all’interno di un dibattito polarizzato e strumentalizzato da una certa politica a fini meramente elettorali.
Eppure, quella nota, così scarna, era profondamente pregiudicata da un pensiero che da decenni Giorgio Agamben verga su carta e da mesi affida digitalmente alle pagine del sito Quodlibet.it, assolutamente in linea con quanto affermato il 3 maggio 2021: «Cancellazione del volto, rimozione dei morti e distanziamento sociale sono i dispositivi essenziali di questa governamentalità, che, secondo le dichiarazioni concordi dei potenti, dovranno essere mantenuti anche quando il terrore sanitario sarà allentato. Ma una società senza volto, senza passato e senza contatto fisico è una società di spettri, come tale condannata a una più o meno rapida rovina».
Quale sarebbe, dunque, la grave colpa di cui si sarebbe macchiato Cacciari, allineandosi sulle posizioni di Agamben? Quella di aver fatto precisamente il suo mestiere? Quella di aver posto delle questioni di principio, di aver esercitato il dubbio filosofico su questioni politiche che non trovano riscontro nelle norme costituzionali? Quella di aver denunciato il ricorso sistematico e continuo, ormai da tempo, ad una “decretazione d’urgenza” che esautora il significato e il ruolo del Parlamento, imponendo politiche securitarie contraddittorie? Quella di aver espresso opinioni controcorrente e scomode per l’opinione pubblica, da mantenere buona, ordinata e al sicuro? Oppure, scendendo in questioni più tecniche, quella di non aver riportato dati scientifici e citato le fonti bibliografiche necessarie nel sistema internazionale APA, in modo da ridurre l’esercizio di un dubbio filosofico affidato ad un giornale ad una pubblicazione scientifica da inserire nel CV dei titolati professori ordinari e far salire il ranking accademico istituzionale?
Qualche giorno fa ci siamo commossi davanti al discorso delle tre studentesse neo diplomate della Scuola Normale Superiore di Pisa della Classe di Lettere, le quali, nella denuncia tesa sostanzialmente a mettere in risalto la disparità di genere perpetrata a danno delle donne nelle accademie, soprattutto ai livelli alti delle carriere, mettevano in evidenza un altro aspetto interessante, vale a dire quel «processo di trasformazione dell’Università in senso neoliberale, verso il modello di un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi».
Purtroppo, quelle ragazze hanno dannatamente ragione: anche la filosofia e i filosofi/e, nella smania di conquistare posizioni e collocarsi utilmente nelle graduatorie e nei concorsi pubblici per i posti che contano nelle Università, si sono fatti prendere nel tritacarne del discorso convenzionale, quello pervaso dal mito della scientificità e dell’efficienza liberista, sia nella forma sia nel contenuto, rinunciando ad affrontare temi scomodi e ad interrogare la realtà circostante con piglio critico e dubbioso, anche a prescindere dalle scelte che, turandosi il naso, occorre fare.
Certo, se si cerca con una certa insistenza la coerenza da un filosofo, si resterà profondamente delusi, e questo, tuttavia, non significa che il filosofo sia una persona fondamentalmente inaffidabile, anzi, è proprio quel dissidio interiore che innesca il dubbio del filosofo, vissuto personalmente come inquietudine, a costituire la garanzia di affidabilità, per gli altri, in virtù del ventaglio delle possibilità che egli offre nella lettura della realtà.
Semmai, quello che rimproveriamo a Cacciari, così come a tutti quegli amici e quelle amiche che hanno ardentemente e coraggiosamente pensato che la loro formazione filosofica potesse essere utile per cambiare il mondo in meglio, è di aver scelto la via della politica, quella dei partiti, giacché in quell’ambito le regole della quaestio filosofica non valgono, gli opponentes, di solito, non fanno largo uso dell’argomentazione logica, razionale, bensì di slogan emotivamente e opportunamente direzionati, così come la determinatio conclusiva a mezzo conferenza stampa non la pronuncia chi viene riconosciuto come il maestro in virtù delle sue conoscenze e competenze in materia, bensì chi vince le elezioni o, al massimo, chi viene nominato per doti presunte, acclarate da una sola persona, foss’anche il Capo dello Stato.
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a cura di Michele Lucivero
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