(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 10, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
I sogni di chi tifava, faceva la raccatta palle e giocava nelle buie palestre cittadine imitando ed emulando Moky, Piske, Kascia e tante altre campionesse biancorosse.
Tutto ebbe inizio con un invito e gli inviti, come da sempre mi è stato insegnato, raramente vanno rifiutati. Avevo da poco compiuto 10 anni quando decisi di accogliere la proposta dello zio, giunta in un’apparentemente anonima domenica di ottobre, che mi suggeriva di seguirlo assicurandomi divertimento ed emozioni nuove.
Fu così che approdai per la prima volta al palazzetto di via Goldoni a Vicenza, divenuto la sede per antonomasia del volley vicentino di vertice dove con cadenza bisettimanale si disputavano le partite in casa della squadra di pallavolo femminile che da quel momento in poi avrei iniziato a seguire con crescente interesse, coinvolgimento e amore.
Mi affacciai con gli occhi pieni di curiosità che ciascun bambino a quella età possiede ed oltre la finestra del desiderio di conoscenza trovai una realtà nuova, inattesa ed insieme entusiasmante che seppe emozionarmi sin dai primi istanti.
A poco a poco, domenica dopo domenica, iniziai a prendere dimestichezza con le regole del gioco, con le talvolta opinabili scelte arbitrali, ma soprattutto con i nomi, i cognomi e i mitici soprannomi di quelle giocatrici che vedevo elevarsi agilmente oltre la rete con la stessa destrezza ed incomprensibile facilità di Mila e Shiro in una delle numerose puntate che avevo guardato di quel cartone iconico della pallavolo.
Ed all’annuncio della speaker dei nomi dell’allenatrice di allora, Manuela “Manu” Benelli, e delle ragazze in campo il palazzetto rispondeva con crescente partecipazione e gli animi iniziavano a scaldarsi per poi lasciar planare tutte le aspettative su quelle giovani giocatrici che, succedendosi dinanzi al pubblico, si caricavano prima della partita battendosi il cinque o addirittura il dieci.
Servirono poche azioni per capire quali fossero le ragazze su cui il mio giovane istinto aveva deciso di contare: Valentina “Piske” Arrighetti, Monica “Moky” De Gennaro e Katarzyna “Kascia” Skowrońska, la cui altezza quasi doppiava la mia, che pure bassa non ero già allora.
Le loro azioni divennero esempio per me e le mie compagne di squadra tanto che iniziammo ad emulare – seppur miseramente – quelle schiacciate in primo tempo o i recuperi in punti improbabili del campo sino ad essere invitate in un paio di occasioni per raccogliere e distribuire la palla a bordo campo: un grande onore e un’indicibile emozione stare vicino alle nostre campionesse per tutta la partita. Mentre nel corso del match talvolta le nostre mani sudavano perché figlie della paura di sbagliare a lanciare la palla alla giocatrice che si sarebbe occupata del servizio, il post-partita diveniva una festa senza eguali.
Fu così che a fine stagione, un’iniziale titubante richiesta da parte di una bambina divenne un cimelio raro da conservare; il cassetto dei ricordi da quel momento avrebbe custodito “per sempre” una maglia rossa dalle scritte bianche.
Oltre il numero e gli sponsor un nome, un soprannome e un cognome: Stefania “Pacca” Paccagnella, la capitana.
Mi affezionai talmente tanto a questo nuovo mondo da attribuire al match contro la Foppapedretti Bergamo (allora tra le più forti e vincenti del campionato ma di cui Vicenza era spesso la bestia nera) i connotati dell’evento dell’anno.
Arrivai alla meta almeno un’ora prima rispetto alla consuetudine per attendere l’arrivo della statuaria e maestosa Piccinini che in diversi descrivevano quasi come una divinità del volley; un misto tra Giunone, per la forza, e Venere, per la bellezza.
Il palazzetto si popolava di cori e colori, di fair play ed azioni e tutto quel che riempiva il campo, l’aria e quelle domeniche di luce entrava con prepotenza nei cuori, rimanendoci per sempre.
Quanto avevo raccolto in quegli anni, tra il 2005 ed il 2007 quando le emozioni venivano affidate agli occhi ed agli autografi non potendo ancora affidarle ai selfie, si scontrò con la dura realtà legata prima al trasferimento forzoso della squadra ad Imola (non ho ancora capito il perché di quella terribile espulsione) e, poi, alla chiusura del club vicentino alla fine dell’annata 2009-2010, quando già avevamo perso, a fine 2009, il presidente Giovanni Coviello, che per noi ragazzine aveva le stesse attenzioni, lui scopritore di talenti, che aveva per le campionesse tanto che veniva spesso ad assistere anche ai nostri allenamenti.
Non ebbi più la possibilità di supportare le mie beniamine, di seguire il loro percorso di crescita individuale e di gruppo, ma prima di tutto ciò avevo perso l’opportunità di assaporare i frutti dello sport che dalle radici del sacrificio e dell’abnegazione fa nascere collaborazione, autostima e mindset.
Ed ora? Come poter non esultare dinanzi alla strepitosa vittoria dell’Italvolley alle Olimpiadi di Parigi? Come trattenere l’affetto nei confronti di quella maglia diversa dalle altre, quella del libero Moky De Gennaro, veterana della pallavolo che da bambina avevo conosciuto in quella palestra vicentina, dove arrivò anche lei quasi bambina, a 14 anni, e che a 37 anni è stata nominata miglior libero delle Olimpiadi?
Come non prestare orecchio a due giovani voci che, alla vigilia di quella che sarebbe stata una domenica indimenticabile per gli annali del volley azzurro e mondiale, uscendo da un centro sportivo anticipavano alla madre le regole della partita del giorno dopo, quella che sarebbe diventata d’oro?
Questo è quanto uno sport pulito come il volley può e sa offrire: passione ed inatteso coinvolgimento, divenendo scuola di dedizione e concedendo l’opportunità di imparare ad intonarsi alle anime di coloro con cui si condivide un percorso di crescita personale prima ancor che sportiva.
Il mio auspicio, all’indomani dell’indimenticabile sogno regalatoci dalle ragazze di Velasco, è che il volley biancorosso possa ritornare ad offrire alle nuove generazioni ciò che io tra i tanti ho potuto assaporare in palestra quando giocavo e nel palazzetto sempre pieno, nei momenti di gloria ma anche in quelli di difficoltà, affinché l’interesse di quei due bambini e di molti altri coetanei non venga perduto.
Se è vero che un sognatore non dorme mai, consapevole che finché la strada è in salita ti dice sempre la verità, spero che quando si spegneranno i riflettori dopo la vittoria olimpica non cali il silenzio, ma si faccia spazio un nuovo slancio tutt’altro che muto, colmo di amore verso progettualità innovative ed ambiziose.
Che questo oro sia prezioso come un rinnovato richiamo, come una lezione dopo il migliore tra i risultati che riporti all’attenzione la responsabilità di instillare nei giovani l’importanza dello sport, e la pallavolo tra gli sport è tra i più educativi, specialmente in questo tempo troppo “smart” e poco “together”.