Eleonora Duse, divina e (un po’) vicentina per parte di mamma: Angelica Cappelletto era la ventunesima figlia di una famiglia poverissima

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Eleonora Duse
Eleonora Duse

(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 6, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

A un secolo dalla morte, resta troppo poco di questa donna che folgorò, tra gli altri, Cechov, Chaplin e Stanislavskij.

Due settimane di febbre e delirio morfinico, un fiume instancabile di parole, rivolte a chi andava a trovarla, dedicate al suo rientro in Italia. Le tende abbassate, per non vedere il cielo freddo e le cupe ciminiere fumanti di Pittsburgh, sognando la sua Asolo. Come in un film di Gus Van Sant, il 21 aprile 1924 moriva a 67 anni Eleonora Duse, la «divina», come l’aveva scolpita per l’eternità il «vate» Gabriele d’Annunzio. Era in tournée negli Stati Uniti, dopo un ritiro dalle scene poi ritirato. Portava, tra le altre produzioni, La porta chiusa di Marco Praga. E lei quella porta chiusa la trovò davvero, il 5 aprile, quella del teatro Syria Mosque. Bussò per oltre un’ora, sotto la pioggia battente di una primavera troppo invernale. Già devastata dalla tisi sin dalla giovane età, non sopravvisse alla terribile polmonite.
Se la leggenda vuole che la piccola Eleonora nascesse in un vagone ferroviario di quarta classe, la realtà si discosta di poco: la «miglior cosa mai vista sul palcoscenico», per usare le parole di Charlie Chaplin, che la vide in scena a Los Angeles, nacque a Vigevano nel 1858, durante una tournée della scalcinata compagnia dei genitori, Angelica Cappelletto, vicentina, ventunesima figlia di una famiglia poverissima, e dal chioggiotto Alessandro, che
lasciò l’impiego al monte di pietà per l’arte drammatica.
Così racconta, sia pure con qualche incertezza sui riscontri Mario Cacciaglia (Eleonora Duse, ovvero vivere ardendo, Milano, Rusconi, 1998): «Eleonora Duse nacque a Vigevano, allora appartenente al Regno di Sardegna, nell’albergo Cannon d’Oro, un lusso per i suoi genitori, che avevano lasciato il carrozzone dei comici per una sistemazione appena più decente in vista dell’imminente lieto evento. Il padre, che si chiamava Vincenzo, ma aveva optato per un nome d’arte più aulico, Alessandro, era uno dei tanti attori che giravano l’Italia settentrionale, l’Istria e la Dalmazia, interpretando disinvoltamente farse, drammi popolari, commedie e perfino sacre rappresentazioni: erano gli ultimi epigoni della Commedia dell’Arte.

Eleonora Duse con la madre Angelica Cappelletto,ritratto di Francesco Gavagnin (Fondazione Giorgio Cini)
Eleonora Duse con la madre Angelica Cappelletto,ritratto di Francesco Gavagnin (Fondazione Giorgio Cini)

Battevano le piccole città in occasione di fiere e mercati, quando i buoni villici, disponendo di qualche svanzica in più, erano disposti a spenderla per vedere i comici, che montavano alla meglio il loro sgangherato palcoscenico un po’ dove capitava, in una piazza, un’aia o un camerone. Si spostavano a piedi, su un carro o una barca, come all’epoca di Goldoni. Erano i soliti Italiens che da secoli avevano propagato per tutta l’Europa l’umile arte dei nostri comici recitando, naturalmente a soggetto. Ma quale grande attore non recita a soggetto?
La madre, Angelica Cappelletto, definita nell’atto di nascita “benestante”, non era mai stata tale: ventunesima figlia di una famiglia poverissima, Alessandro l’aveva incontrata durante i suoi eterni vagabondaggi e l’aveva sposata».
La bambina cresce sul «tavolaccio», come lei stessa definiva il palcoscenico, e a 24 anni è già una star internazionale, grazie al suo metodo recitativo rivoluzionario.
Konstantin Sergeevič Stanislavskij lo decodificò nei libri. Il lavoro dell’attore sul personaggio e venne adottato dallo star system hollywoodiano, da Marlon Brando a Johnny Depp. La sua grammatica mimica e gestuale era minimalista, ma di straordinaria efficacia.
Potente sulla scena e negli affari (dirigeva lei stessa le sue compagnie teatrali), non fu fortunata in amore, Eleonora. Visse un rapporto instabile con il poeta Arrigo Boito per 12 anni, fino all’incontro fatale con colui che le stravolse la vita: Gabriele d’Annunzio. Si conobbero nel 1894 a Venezia, ma la passione divampò nel settembre 1895 e per 9 anni consumarono un rapporto intenso e straordinario: lei divenne la sua inarrivabile musa ispiratrice e lui il più discusso drammaturgo del tempo. Di cinque anni più vecchia di lui, l’amò di un amore totale e devoto e sovvenzionò tutti i suoi elaborati e costosissimi allestimenti teatrali impegnandosi in estenuanti tournée; lui, pur amandola, non le risparmiò sofferenze ed umiliazioni (compreso l’impietoso ritratto che ne fece nel suo romanzo Il fuoco, nelle vesti della Foscarina), tradendola con tutte le attrici delle sue compagnie teatrali, con le sue migliori amiche e persino con sua figlia Enrichetta, senza ritegno. Non soddisfatto, nel 1903 d’Annunzio scrisse il suo capolavoro teatrale, La figlia di Iorio; Eleonora avrebbe voluto interpretare la protagonista, ma la recrudescenza violenta della tubercolosi e i suoi 45 anni indussero l’autore a scegliere un’altra attrice.
E si scelse anche un’altra amante, stupenda, altissima e giovane, che apparve accanto a lui proprio alla prima, il 2 marzo 1904. Un doppio tradimento che graffiò la Duse per sempre. Quell’incomparabile «incantesimo solare» si interruppe, ma non quel legame troppo intenso, tanto che al Vittoriale, nello studio dove il poeta trascorreva gran parte del suo tempo, campeggiava proprio il busto dell’attrice, coperto da un velo, e mille volte lui la ricorderà con affetto e gratitudine durante il resto della sua vita. Gabriele ed Eleonora s’incontrarono per l’ultima volta nel 1922, all’Hotel Cavour di Milano; narra la leggenda che lui le si buttasse platealmente in ginocchio esclamando: «Quanto mi avete amato!» e che lei, aiutandolo a rialzarsi, replicasse: «Ma non sapete quanto vi ho dimenticato!».

Un'interpretazione drammatica della Divina
Un’interpretazione drammatica della Divina

Ma questo folle amore per d’Annunzio occupa troppo spazio nella biografia ufficiale di una donna che amò tanto e lo fece con una modernità straordinaria: fu sedotta appena 20enne dal suo capocomico e il figlio morì a pochi giorni dal parto, avvenuto clandestinamente sul litorale pisano; l’anno dopo si sposò, già incinta della sua unica figlia, per poi separarsi dal marito fedifrago pochi mesi dopo, pronunciando frasi assai poco idilliache sul matrimonio, che, nel linguaggio moderno, potrebbero essere tradotte con «è sopravvalutato”. Amò le donne, la Duse, anche fisicamente: celebri le sue relazioni con la prima «maschia» Lina Puletti e con la cara amica Isadora Duncan, ma anche l’amicizia di una vita con Matilde Serao, la prima donna a fondare e dirigere un giornale. «Il fatto è che mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato o se nacquero perverse, perché io sento che hanno pianto, hanno sofferto per sentire o per tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più dolce e più completo che non il compianto che mi accordano gli uomini», scrisse in un carteggio.
In questo universo globale e rumoroso, manca la sua voce magica nei toni bassi, sensuale, roca. Il segreto è crudele: la malattia le aveva scavato un polmone, dotandola di una sorta di cassa di risonanza, e le medicine che assumeva per curarsi la rendevano «ipnotica e isterica», come scrisse il pittore Paul Klee dopo averla vista a teatro, dove si esibiva senza trucco e con i suoi capelli bianchi. Fu la prima donna italiana sulla copertina del Time e Marilyn Monroe teneva una sua foto autografata in camerino, dono di Lee Strasberg. Ma, ubriachi di star da stream e social, oggi di lei resta troppo poco.