Forse siamo un po’ in ritardo per fare un’analisi del voto ad una settimana di distanza dalle elezioni e, del resto, molte delle considerazioni fatte in questi giorni da diversi analisti potevano essere fatte anche prima delle elezioni, giacché grandi sorprese non ci sono state e tutto era largamente prevedibile, dalla vittoria della destra al montante astensionismo fino alla débâcle della sinistra.
Forse anche per queste ragioni non abbiamo sentito l’urgenza di fare alcuna analisi sul voto e forse non ne abbiamo sentito l’esigenza perché non siamo propriamente degli analisti, ma proviamo a guardare la realtà con piglio filosofico, interrogandoci costantemente, dubitando sul presente, ma soprattutto sul futuro. Proprio per questo, in realtà, i risultati delle elezioni hanno sollevato, piuttosto, degli interrogativi, molti in verità, sui quali proviamo a fare delle semplici considerazioni.
Ma, in fondo, a chi interessa l’astensionismo?
Intanto è chiaro che sicuramente ai politici, soprattutto a quelli eletti, che la gente non vada a votare non può minimamente interessare, giacché, paradossalmente, in un sistema elettorale come il nostro anche una sola manciata di voti legittimerebbe una maggioranza qualificata in Parlamento che va a governare senza alcuna difficoltà. Si tratta di un gioco che la democrazia liberale, quella rappresentativa per delega, ha accettato ampiamente e che il sistema elettorale maggioritario, nella fattispecie il cosiddetto Rosatellum, voluto dal centrosinistra, ha conseguentemente legittimato.
Chi davvero deve preoccuparsi di questa situazione, tutt’altro che democratica, è l’intera società civile, quella fatta di maggioranze rappresentative ma, soprattutto, di tante minoranze che vanno rispettate e incluse. Già verso la fine del 1700 Benjamin Constant avvertiva che, nonostante questa illusione per cui la democrazia è la migliore forma di governo, in realtà il sistema della rappresentanza consente di creare una distinzione tra governanti e governati. La rappresentanza consente, di fatto, a pochi soggetti di costituire una minoranza che può tranquillamente operare a detrimento della maggioranza e a proprio vantaggio.
Tuttavia, se proprio vogliamo analizzare qualche dato, bisogna innanzitutto registrare che le elezioni di domenica scorsa hanno visto un tasso di diserzione dalle urne del 36% degli aventi diritto, cresciuto del 9% rispetto alle elezioni politiche del 2018. La considerazione da fare, matematicamente parlando, è che quel 64% degli aventi diritto al voto, che hanno espresso una preferenza, quindi non di tuttə le/gli italianə, giacché vengono ancora esclusi i/le più giovani, su cui poi gli effetti della politica saranno effettivi tra qualche anno, viene poi riparametrato al 100%. Da questa ricomposizione della torta, che ha già dimenticato gli astenuti, ricaviamo che un 44% ha scelto la destra, che non è la maggioranza di coloro i/le quali hanno votato. Eppure da quella maggiore minoranza degli aventi diritto scaturisce una composizione parlamentare di 237 su 400 deputati alla Camera e 115 senatori su 200.
Ricapitoliamo, dunque, e riflettiamo bene su questi numeri: il 64% degli aventi diritto al voto ha espresso una preferenza, ma il 44% della maggiore minoranza riparametrata corrisponde al 28% di quel 64% votante, che, tuttavia, va a fare le leggi in Parlamento con una maggioranza del 60% dei deputati. Ma davvero pensate che i politici che entrano nel gioco elettorale possano minimamente preoccuparsi di coloro i/le quali non si recano alle urne?
Ma, alla fine, ha vinto il centrodestra?
Beh, certo, è evidente, ha vinto il centrodestra, ha vinto la coalizione del Polo delle Libertà, il Popolo delle Libertà, la Casa delle Libertà, insomma la creatura di Silvio Berlusconi…solo che il partito di Berlusconi ha preso appena l’8% e la sua garanzia di essere il moderato della situazione, cosa in cui nessuno ha mai creduto, non può nemmeno funzionare. La Lega di Matteo Salvini, ex Lega nord del secessionista Umberto Bossi, che aveva fatto cadere il governo Conte I nel 2019 e intendeva andare subito alle elezioni perché i sondaggi la davano al 40%, ha preso un risicato 9%. I dati, dunque, dicono che i risultati di Berlusconi insieme a quelli di Salvini arrivano ad uno sfigato 17%.
E, allora, tecnicamente non ha vinto il centrodestra, ma è evidente che le elezioni politiche di domenica scorsa le ha vinte, con un sonante 26%, la destra di Giorgia Meloni, l’amica di Marine le Pen del Rassemblement National francese, di Santiago Abascal Conde di VOX in Spagna, dell’ungherese Orban. Le elezioni le ha vinte la destra conservatrice e post-fascista, che conserva nel suo simbolo la fiammella tricolore. Tutto ciò ci ricorda le elezioni del 1921, quando Giovanni Giolitti con una coalizione di centrodestra “Il blocco nazionale” portò per la prima volta in Parlamento 35 deputati dei fasci, nella convinzione di poter parlamentarizzare il fascismo, un po’ come pensava lo stesso Silvio Berlusconi nel 1994, quando era convinto di aver portato i fascisti e i leghisti all’interno dell’arco costituzionale (qui il memorabile discorso).
Nel 1921, a parte il povero Giacomo Matteotti, nessuno pensava seriamente che il fascismo fosse un pericolo, né Giolitti né i successivi governi tecnici di Ivanoe Bonomi e di Luigi Facta. Tuttavia, uno strano clima avvolgeva l’Italia e così il re Vittorio Emanuele III pensò di affidare il governo del paese ad un centinaio di uomini arrivati di notte a Roma da Napoli, mentre Mussolini con la strizza al culo si trovava a Milano con un piede nella Svizzera nel caso fosse accaduto l’irreparabile. È curioso che le prime due cose che fece Mussolini al governo furono la riforma della legge elettorale, fortemente maggioritaria, e la riforma della scuola…staremo a vedere!!!
Ma no, certo, per carità, lungi da noi evocare scenari funesti legati allo spettro del fascismo ora che Giorgia Meloni, forte del plebiscito popolare al 26%, s’insedia al governo. Anzi, se proprio dobbiamo dirla tutta, è già da tempo, soprattutto nei due anni passati, che noi vediamo messi in pericolo alcuni presidi di democrazia, partecipazione e libertà nel nostro Paese. Per cui, davvero credete che la popolazione oggi possa preoccuparsi dello spettro del fascismo, se davanti a cotanti segni di privazione della libertà vota al 26% un partito della destra postfascista?
Ma, alla fine, il centrosinistra ha perso?
Insomma, è evidente che il centrosinistra abbia clamorosamente perso queste elezioni, eppure c’è un vecchio adagio, logicamente ineccepibile, il quale sostiene che «Non puoi perdere ciò che mai hai avuto». E, in effetti, consentendoci di giocare un po’ con le parole, cosa ha perso il centrosinistra? Ha semplicemente perso le elezioni politiche del 2022, così come ha perso le elezioni politiche del 2018, così come quelle del 2013 – perché non si può dire di aver vinto le elezioni se ti tocca governare con il centrodestra di Angelino Alfano – così come aveva perso pesantemente le elezioni del 2008. Sicché, facendo un po’ di conti, considerando che non vince le elezioni dal 2006, sono più di 15 anni che il centrosinistra, più che perdere, si è perso.
Ma, quindi, resta l’interrogativo: che cosa ha smarrito il centrosinistra? Perché perde così clamorosamente le elezioni dal 2008? E così, proprio tornando a quel lontano 2006, dal quale venne fuori la XV Legislatura, si può agevolmente constatare che, di fatto, si trattava, per l’ultima volta, di un centrosinistra, una compagine che metteva insieme cattolici, moderati, repubblicani, Democratici di Sinistra e poi, almeno alla Camera, una sessantina di deputati comunisti e postcomunisti, divisi (malattia endemica della sinistra) tra il Partito della Rifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani. Fu quella, probabilmente, l’ultima stagione per cui veramente si potesse parlare di centrosinistra, infatti l’ultimo baluardo a sinistra, costituito dai Democratici di Sinistra, scomparve nel 2007 per lasciare il posto in quello stesso anno al Partito Democratico.
Ora, è una fallacia logica, storica, ma soprattutto politica, legata alla memoria di qualche boomer che ha assistito passivamente a questa transizione, ritenere che il Partito Democratico abbia qualcosa di sinistra e basterebbe proprio chiederlo a coloro i/le quali si sono affacciati alle urne per la prima volta domenica 25 settembre, i/le natə nel 2004, che hanno visto Matteo Renzi guidare e poi distruggere il Partito Democratico, senza alcun legame linguistico e politico con la sinistra.
Il punto è che il centrosinistra ha smarrito proprio la sinistra, perché essere di sinistra, scrive non un estremista ex-lottacontinuista – quelli davvero finiti tutti nel PD o quasi –, ma Fabrizio Barca, «vuol dire, piuttosto, osare la visione di un modo alternativo di vivere, e quindi ritenere che, di fronte all’entità delle disuguaglianze e dei danni e rischi ambientali, si debba agire con urgenza e radicalità, promuovendo ogni possibile modo di organizzazione non capitalistico»[1].
Oltralpe La France Insoumise (La Francia indomita), la formazione della sinistra radicale anticapitalista, antiatlantista, ecologista e pacifista, capitanata da Jean-Luc Mélenchon, nel giugno 2022 conquista un impressionante 32% al secondo turno. Eppure, noi in Italia avevamo una formazione alla Mélenchon, era la vera sinistra, quella smarrita dal PD, ma il dato paradossale è che tra la nostra Unione Popolare, con tutto l’endorsement dello stesso Mélenchon in campagna elettorale, e la Nouvelle Union populaire écologique et sociale (Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale) ci separano ben 30% di preferenze e non è cosa da poco!
Resta, tuttavia, un interrogativo cruciale al quale bisognerebbe rispondere: se in Italia il centrosinistra smarrisce la sinistra e perde, perché la sinistra ritrova sé stessa e perde?
Ma, alla fine, il Movimento 5 Stelle ha vinto o ha perso?
E qui la questione si fa ancora più interessante e, al tempo stesso, spiazzante. Non c’è dubbio che al sud il Movimento 5 Stelle abbia mantenuto parecchi voti, se non altro perché ha funzionato bene l’ipoteca del reddito di cittadinanza, per cui, se vogliamo, la sua battaglia l’ha vinta, tuttavia ha perso la guerra!
In questi anni abbiamo assistito, più in generale, alla sconfitta della guerra che il Movimento 5 Stelle conduceva contro la politica per mezzo della sua vocazione movimentista. L’uscita di scena di Alessandro Di Battista, oppostosi all’appoggio al governo del banchiere Mario Draghi, il fulcro di quello che era l’establishment politico-economico del nostro Paese e che il movimento contestava duramente; la penosa, e inutile, rincorsa alla poltrona di Luigi Di Maio, costretto a virate rocambolesche in contrasto con i principi ispiratori del movimento; la volatilizzazione mediatica della furia dialettica e della retorica antipolitica di Beppe Grillo, che lascia il passo al tono più dimesso, conciliante, concertativo e altamente politico del giurista Giuseppe Conte; ebbene, tutti questi passaggi hanno polverizzato la potente carica iniziale di tipo movimentista e partecipativa del M5S, quella che aveva addirittura entusiasmato molti elettori di sinistra, costringendolo ad una disastrosa ritirata. E anche in questo caso ci sono degli interrogativi che frullano nelle nostre menti: è possibile che l’esercizio della democrazia e della partecipazione attraverso tutte quelle piattaforme online si possa così, d’emblée, esaurire? È così volubile il popolo per passare in forze, nel giro di quattro anni, dall’osannare gli strumenti e i movimenti sostenitori della partecipazione democratica agli eredi palesi e legittimi della repressione antidemocratica?
Insomma, più che fornire analisi per capire ciò che è accaduto, abbiamo tanti dubbi su ciò che siamo diventati noi, ma soprattutto, per ciò che avverrà nei prossimi anni.
[1] F. Barca, Disuguaglianze, confitto, sviluppo. La pandemia, la sinistra e il partito che non c’è, Donzelli Editore, Roma 2021, p. 177.
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a cura di Michele Lucivero
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