Sono dieci anni che se ne è andato Enrico Berlinguer, era il 1984. Ero piccola, ma ancora ricordo quando ho ascoltato la notizia al telegiornale. A Padova a metà comizio è caduto, si è sentito male ed è entrato in coma. Ho sentito un vuoto improvviso. Io non sono mai stata interessata alla politica, ma questo signore mi piaceva, lo ascoltavo e mi sembrava di capirlo. Sembrava sempre triste, ma in realtà sognava di essere felice, a patto che lo fossero anche gli altri.
Era solido, autorevole e allo stesso tempo così umano, con quei capelli dritti in testa che non andavano né avanti né indietro. Avrei voluto pettinarlo affettuosamente! Ci sono persone che lasciano molto di se stessi e si portano via qualcosa della coscienza di tutti. Non posso credere che durante l’ultimo comizio, mentre l’ictus lo stava uccidendo e la gente lo invitava a smettere, lui non si sia fermato. Aveva un tale desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita anche quando la sua stava per finire.
Ha illuminato di senso l’esistenza di tutti
Ha illuminato di senso l’esistenza di tutti, amici, compagni, rivali. Mi ricordo i servizi televisivi, i telegiornali sui funerali di Berlinguer, un serpentone umano, interminabile di persone commosse, addolorate e in lacrime. Mi colpì che fra tutta questa gente ci fossero due personaggi che nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere lì: Pino Romualdi e Giorgio Almirante. Rispettivamente il presidente e il segretario dell’msi. Erano lì, a rendere omaggio non a un amico, ma a un avversario che rispettavano. La tv annunciò che Sandro Pertini avrebbe portato a Roma la salma con l’aereo presidenziale. “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta” disse il presidente. Quelle parole furono il sentimento di una generazione che fortemente ha creduto e combattuto. Come noi, forse, mai sapremo fare.
di Benedicta Boccoli da Il Fatto Quotidiano nella rubrica Anni 90
