Ex Ilva, la posizione e le proposte del Partito Comunista Italiano

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Dopo 14 Decreti Leggi e 7 anni dall’apertura – è scritto in un comunicato del Partito Comunista Italiano – della vicenda giudiziaria ai lavoratori dell’ex Ilva e ai cittadini di Taranto non si è ancora data una soluzione al dilemma che li contrappone: lavoro o salute e ambiente. In questa contrapposizione c’è già chi ci ha rimesso:

1.600 lavoratori non assorbiti da Arcelor Mittal (come previsto dal contratto) che si trovano appesi alla cassa integrazione e nella speranza che vengano impegnati nelle bonifiche di cui però non si vede neppure l’inizio; molti di essi pagano più volte la crisi perché magari sono anche abitanti del rione Tamburi e quindi a stretto contatto con l’inquinamento della fabbrica e poi perché pagano un mutuo (che gli prosciuga il sostegno della cassa integrazione) per un’abitazione il cui valore è crollato;

Coloro che hanno continuato ad ammalarsi e spesso a morire e che per tentare di curarsi si sono dovuti spostare lontano da Taranto perché le istituzioni non hanno nemmeno pensato di realizzare qui un centro di eccellenza nella cura dei tumori;

Il governo continua a ripetere che lo stabilimento di Taranto è strategico e fondamentale per l’economia nazionale perché rappresenta da solo l’1,5% del PIL italiano, perché la produzione dell’acciaio è necessaria al mantenimento della capacità industriale del Paese, perché il ciclo integrale è fondamentale se si vuole conservare, appunto, la possibilità di produrre l’acciaio.

LE ALTERNATIVE

La chiusura non è la soluzione per le seguenti ragioni:

non risolverebbe il problema ambientale e si rischierebbe una Bagnoli più grande e più pericolosa, abbandonata e con il rischio di continuare con la contaminazione per chissà ancora quanto tempo. La chiusura della fabbrica, come succede abitualmente, significherebbe dimenticare il problema;

metterebbe ancora più in ginocchio l’economia del territorio senza un’alternativa plausibile;

Se però la chiusura non è percorribile e l’ex ILVA è così fondamentale per l’economia del Paese non può essere accettabile che i costi siano a carico dei soli cittadini di Taranto (in termini di ambiente e di salute). Se è necessario e utile che la fabbrica continui a produrre perché l’ex Ilva è considerata un’industria strategica, lo Stato e l’intero sistema Paese devono farsi carico della questione, costi compresi. Taranto è già in credito di investimenti per l’ambientalizzazione della fabbrica, per le bonifiche del territorio, per la salute dei cittadini. Non è un problema territoriale ma nazionale e come tale deve essere affrontato e risolto.

La vendita ad un altro gruppo privato non è soluzione. Questo sarebbe un ulteriore inutile tentativo dopo due precedenti fallimenti:

la famiglia Riva ha rilevato la fabbrica quasi gratuitamente, l’ha spremuta raggiungendo quantità di produzione mai viste prima e lasciando al territorio solo morte e inquinamento a livelli intollerabili e con una crescita esponenziale. I Riva hanno aumentato a dismisura la propria ricchezza trasformando lo sfruttamento di lavoratori e ambiente in enormi profitti personali;

Arcelor Mittal ha completato l’opera appropriandosi delle quote di mercato, senza neppure un euro di investimenti;

Inoltre perseguire la strada della ricerca di privati che vogliano investire per l’ambientalizzazione degli impianti sarebbe infruttuoso. Gli investimenti necessari sarebbero così alti da avere punti di break even così lontani nel tempo da non essere digeribili dalla finanza privata.

Quanto sopra, fa della nazionalizzazione l’unica soluzione perseguibile.

LA SOLUZIONE

Il fondamento della nazionalizzazione come soluzione non sta però solo nella mancaza di alternative o nelle nostre motivazioni ideologiche. Vi sono anche alcune riflessioni logiche che ne supportano la forza:

se per lo Stato l’ex ILVA è strategica per l’economia del Paese, nazionalizzare serve a preservare l’interesse pubblico (come prescrive la nostra Costituzione);

solo con la nazionalizzazione si potrebbe puntare ad una vera salvaguardia della salute e dell’ambiente avendo come controparte lo Stato. In questa maniera, quindi, i cittadini e il territorio avrebbero un potere contrattuale diverso e maggiore (questo dovrebbe comprendere anche il Presidente della Regione, Emiliano, quando parla di puntare alla decarbonizzazione della fabbrica);

solo lo Stato sarebbe disponibile a sopportare livelli di perdita economica pur di sostenere il sistema produttivo dell’intera nazione.

Queste non sono affermazioni ideologiche ma logiche. A loro, però, non si danno risposte altrettanto logiche ma solo considerazioni ideologiche: “il pubblico nell’economia è il passato” o “privato è meglio” (anzi l’unica cosa da fare è privatizzare).

Attenzione però. Quanto viene proposto ultimamente da parte di alcuni settori del Governo e da alcuni rappresentati sindacali non è la nazionalizzazione. Si parla di una partecipazione “pubblica” a sostegno dell’attuale gestore (Arcelor Mittal) con i soldi di Cassa Depositi e Prestiti. Si attingerebbe, così, ai risparmi degli italiani per inseguire e aiutare un padrone che, in un anno, ha dimostrato di perseguire senza scrupoli il proprio disegno predatorio.

La nazionalizzazione deve avvenire in base a quanto stabilito dalla nostra Costituzione (per salvaguardare l’interesse pubblico) e con i soldi dello Stato (e non con i risparmi degli italiani). Soprattutto deve avvenire per un progetto strategico e non allo scopo di prendere tempo per poi rivendere (o forse svendere) ad un nuovo privato.

A chi sostiene che mancano i soldi bisogna rispondere con la logica. I soldi necessari si possono (e si devono) trovare con l’abbattimento delle spese militari (F35, missioni all’estero) e, perché no, da un’adeguata tassazione progressiva delle grandi ricchezze così come stabilito dalla Costituzione. Si abbia coscienza che i primi 10 ricchi italiani possiedono una ricchezza complessiva di oltre 100 miliardi di euro.

CONCLUSIONE

Sappiamo bene però che l’ex Ilva non può rappresentare il futuro del territorio per un tempo indefinito. Prima o poi l’economia italiana uscirà dal ciclo dell’acciaio, sia per la crescita degli altri paesi sia perché nuovi materiali ne prenderanno il posto. La nazionalizzazione servirà a dare stabilità al sistema economico del territorio che però avrà bisogno di una nuova pianificazione che dovrà essere in grado di pensare a nuove linee di sviluppo. Queste però non potranno prescindere dall’industria. Il turismo, la pesca, la cultura, l’agricoltura non riuscirebbero a sostenere l’economia di una città di oltre 200.000 abitanti senza l’apporto fondamentale dell’industria. Certo dovrà essere un’industria compatibile con l’ambiente e a sostegno degli altri settori economici, ma non potrà non avere un importanza fondamentale. Per fare questo lo Stato e le istituzioni locali dovranno tornare a pianificare e a guidare lo sviluppo industriale ed economico riprendendo una strada abbandonata da oltre 30 anni. Senza ripetere errori del passato è venuto il momento di considerare necessaria la costituzione di un nuovo IRI.

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