Fermiamo la guerra, pretendiamo la pace. Un deciso «No» all’escalation di violenza

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Joe Biden

Nell’incontro di Mario Draghi con Joe Biden alla Casa Bianca dell’11 maggio è stato ribadito un punto fermo dal nostro Presidente del consiglio: il popolo italiano e quello europeo dicono «basta con la guerra, è l’ora di fare la pace». Occorre cercare una soluzione diplomatica subito perché l’escalation di violenza porterà alla distruzione dell’economia di una zona importante del territorio europeo e genererà risentimento diffuso tra i popoli che, invece, hanno bisogno di riallacciare i ponti per una convivenza civile.

Un altro punto interessante del discorso di Mario Draghi ha a che fare con gli scenari che potrebbero aprirsi per la gestione della pace, una volta finita la guerra. Una soluzione pacifica che non tenga conto di ciò che chiede l’intero popolo ucraino, nelle sue varie componenti, non può essere proficua, avverte Draghi. Ma, aggiungiamo noi, una soluzione che umili il popolo russo non sarebbe altrettanto auspicabile, giacché alimenterebbe quel risentimento che prima o poi tornerà a riemergere tra gli anfratti della cronaca quotidiana, quella fatta da piccole e costanti tensioni di prossimità che, purtroppo, non giungono a fare notizia.

Il compito è arduo, ovviamente, ma è proprio questo il compito della diplomazia e della politica; è per questo che occorre una soluzione di respiro mondiale in un contesto di interdipendenza globale per andare oltre la guerra. La pace è una soluzione da trovare insieme, non una stretta di mano immaginaria, come quella che pretende Joe Biden.

Durante il discorso pronunciato nel 1958 in occasione del conferimento del Premio per la pace dei Librai tedeschi, il filosofo Karl Jaspers si domandava: «Come potrebbe accadere oggi il fatto inaudito che non si faccia più nessuna guerra? Noi tutti vogliamo la pace, la pace esteriore: che non ci siano guerre, che le armi di distruzione di massa non vengano più utilizzate, che la nostra fine per mezzo della bomba atomica sia esclusa. Questa pace è possibile solo come pace mondiale […]. La politica per la pace è una politica mondiale. Questa politica mondiale può avere successo solo in base a presupposti che ciascuno di noi deve realizzare in se stesso e nel proprio Stato. Nella misura in cui noi agiamo in tal senso, ci è lecito sperare che gli altri ci vengano incontro. La pace non ci capiterà mai come in omaggio tramite mere operazioni politiche»[1].

Jaspers, riferendosi alla situazione tedesca, realisticamente richiamava la necessità di condividere, tra persone e tra Stati, interpretazioni comuni dell’origine di eventi e processi storici. Avere delle comuni basi da cui partire, infatti, significa allontanare propaganda, menzogne e mistificazioni, significa recuperare spazi di verità su cui impostare dialoghi di pace, significa trovare un linguaggio comune che risemantizzi il malinteso in vista della costruzione della convivenza possibile.

Probabilmente è esattamente questo spazio condiviso ciò che manca oggi. Ce ne accorgiamo guardando quello che accade nel dibattito politico quotidiano, anche in casa nostra esso è tutt’altro che pacificato, ma proteso, più che alla confutazione, alla delegittimazione del punto di vista opposto, avversario. Come potrebbe, dunque, produrre pace un dibattito che va alla ricerca di un nemico per rendersi conto della propria identità?

Inseriti in questo frullatore mediatico di scontri verbali inconcludenti, continuiamo a dimenticare troppo in fretta e non ci accorgiamo dell’importanza della pace neanche quando viene a mancare, continuando a tacerci che è essa opera faticosa e richiede intrecci sapienti, anche opportunistici e machiavellici, ma necessari per raggiungere l’obiettivo.

Così come la cura della democrazia della società aperta difesa da Karl Popper nel 1945, anche la pace, fondamento di ogni vivere democratico, pretende una vigilanza costante, che non dovrebbe prevedere né deroga, in base a supposti principi superiori cui sacrificarla, né delega a capi di Stato che non riescono mai a saziarsi di guerre[2].

E invece, proprio la democrazia, oggi purtroppo tanto lontana dal governo repubblicano che Kant aveva auspicato per tutti gli Stati, si svela sempre più come un governo di opinione e, in quanto tale, si adagia supinamente sulla logica balorda della menzogna funzionale al potere. È un potere che costringe anche chi non ne ha affatto e chi continua a vivere e accogliere la narrazione dominante attraverso il mezzo televisivo a considerare la violenza come l’unico modo per dirimere le controversie.

Vorremmo, allora, richiamare un passo del sociologo Wolfgang Sofsky, il quale con una con cruda lucidità ci permette di aprire gli occhi sui meccanismi che legano l’esercizio del potere alla necessità della guerra e della violenza, dinamiche dalle quali le donne e gli uomini, se davvero vogliono la pace, dovrebbero tenersi alla larga: «Il potere non conduce alla pace, serve solo la cupidigia degli aguzzini, dei conquistatori, degli assimilatori, di chi vuole incorporare. Non è un tribunale degli usi e costumi o della civilizzazione. È solo in parte un conforto il fatto che inizio e fine del racconto si perdano nella finzione. Nessuno stato è mai nato da una convenzione o da un contratto. La loro fondazione è stata per lo più accompagnata da atti di violenza e assoggettamento in massa. Il monopolio della violenza si è affermato attraverso lacrime e sangue»[3].

Ecco, quando smetteremo tutte e tutti di giocare a fare le donne e gli uomini di Stato e Potere, forse potremmo cominciare, umilmente, a costruire con la Politica la Civiltà e la Pace.

[1] K. Jasper, H. Arendt, Verità e umanità, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 36.

[2] I. Kant, Per la pace perpetua, p. 13.

[3] W. Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998, p. 18.

Di Michele Lucivero e Andrea Petracca.


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a cura di Michele Lucivero

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