Fideiussioni, Cassazione: nulle se redatte su modulo uniforme ABI, violano divieto di intese concorrenziali

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Un’altra conferma della Cassazione che conferma la nullità delle fideiussioni redatte su modulo uniforme ABI. I fideiussori che hanno sottoscritto un contratto con clausole identiche allo schema contrattuale tipo predisposto dall’ABI non rispondono dei debiti del debitore garantito con il loro patrimonio.

Tempi duri per le banche. I fideiussori che hanno sottoscritto un contratto con clausole identiche allo schema contrattuale tipo predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) non rispondono dei debiti del debitore garantito con il loro patrimonio.

La prassi delle Banche di concedere credito alla società di capitali poco patrimonializzate richiedendo ai soci di garantire le obbligazioni della società non pone, quindi, le banche al riparo del rischio di insolvenza del debitore se la fideiussioni prestate a garanzia risultano redatte su modulo uniforme ABI.

Infatti, Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-05-2019, n. 13846 (in fondo* testo integrale), nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ha ribadito il principio già affermato da Cass. 29810/2017: le fideiussioni prestate a garanzia delle operazioni bancarie redatte su modulo uniforme ABI sono totalmente nulle in quanto violano il divieto di intese anticoncorrenziali previsto dall’art. 2, comma 2, lett. a), della L. n 287/1990.

Il citato articolo l’art. 2 della L. 287/1990 vieta le intese tra imprese che abbiano l’oggetto o l’effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, anche fissando direttamente o indirettamente prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali.

Sul punto, preme ricordare che, in applicazione di detta normativa, la Banca d’Italia aveva avviato nei confronti dell’ABI, relativamente alle condizioni generali della fideiussione contratta a garanzia delle operazioni bancarie, una istruttoria dalla quale emergeva che gli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale tipo predisposto dall’ABI “contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto” con la citata normativa.

Nella fattispecie esaminata dalla Corte Suprema, il fideiussore si era opposto ad un decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti assumendo che il contratto di fideiussione omnibus da lui sottoscritto era nullo in quanto le clausole ivi contenute erano identiche allo schema contrattuale tipo predisposto dall’ABI e perciò contrastanti con il provvedimento della Banca d’Italia, del 2 maggio 2005, che ne vietava l’applicazione per violazione della L. n. 287 del 1990.

La Corte d’appello di Brescia aveva respinto la domanda dell’attore non avendo quest’ultimo dimostrato una effettiva diffusione ed un’applicazione uniforme delle condizioni generali del contratto di fideiussione comprensivo delle clausole censurate dalla Banca d’Italia, giacché solo in presenza di un’applicazione uniforme di dette clausole si sarebbe configurata la contestata intesa concorrenziale ovvero la presenza di illecite pratiche concordate.

La Suprema Corte ha evidenziato che la circostanza rilevata dalla Corte d’appello non era decisiva e che quello che assume rilievo, ai fini della predicata inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8, è, all’evidenza, il fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata…”, cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita..”.
“Ciò che andava accertata, pertanto, non era la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva: giacchè, come è chiaro, l’illecito concorrenziale poteva configurarsi anche nel caso in cui l’ABI non avesse contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005, ma la Banca Popolare di Bergamo avesse egualmente sottoposto all’odierno ricorrente un modulo negoziale includente le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a)”.

In altre parole, la Corte afferma che, indipendentemente dal comportamento dell’ABI, quello che rileva è se l’Istituto di credito abbia sottoposto al ricorrente una fideiussione contenete quelle clausole che sono ritenute in contrasto con l’art. 2, comma, 2, lettera a), della legge n. 287/90.

Dunque il giudice di merito è tenuto essenzialmente “a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidono con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva”, cioè se coincidono con quelle, individuate dalla Banca d’Italia, che violano la legge L. n. 287 del 1990, ciò indipendentemente dal fatto che l’ABI abbia provveduto o meno a diffondere il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione comprensivo delle clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario

Fonte : ALTALEX e Movimento Diritti Europei

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

*SENTENZA

Svolgimento del processo

1. – B.G. evocava in giudizio la Banca Popolare di Bergamo deducendo di aver sottoscritto in data 16 dicembre 2005 un contratto di fideiussione omnibus a garanzia dei debiti di Albatel ICT Solution s.p.a. sino alla concorrenza di Euro 191.750,00; rilevava che la banca, dopo alcune comunicazioni di messa in mora del debitore principale, aveva receduto da tutti i rapporti, ottenendo poi un decreto ingiuntivo anche nei confronti di esso attore. Deduceva quest’ultimo che il contratto di fideiussione concluso era nullo per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a), con cui sono vietate le intese tra imprese che abbiano l’oggetto o l’effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, anche fissando direttamente o indirettamente prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali: di qui la nullità dell’intesa restrittiva, che, rilevava l’istante, avrebbe potuto essere invocata anche dai consumatori. Ricordava l’attore che la Banca d’Italia aveva avviato nei confronti dell’ABI, relativamente alle condizioni generali della fideiussione contratta a garanzia delle operazioni bancarie, una istruttoria alla quale era seguita, in data 2 maggio 2005, l’adozione di un provvedimento in cui era risultato accertato che gli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale predisposto dall’ABI contenessero disposizioni in contrasto con il cit. L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a). Assumeva, poi, che nel contratto di fideiussione in questione erano contenuti i menzionati articoli presenti nello schema elaborato dall’ABI. Domandava, quindi: la declaratoria di nullità della fideiussione, che si accertasse nulla essere dovuto alla banca per debiti contratti dall’obbligata principale; che la convenuta fosse condannata al risarcimento del danno.

Nella resistenza della Banca Popolare di Bergamo, la Corte di appello di Brescia respingeva la domanda osservando come l’analisi testuale del provvedimento emesso dalla Banca d’Italia evidenziasse che la procedura avviata non si era conclusa con una diffida o una sanzione: rilevava il giudice distrettuale che solo in presenza di un’applicazione uniforme delle clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale si sarebbe configurata la contestata violazione; rilevava, in particolare: “(A)lla luce delle conclusioni cui è pervenuto l’organo di vigilanza, non può assolutamente ritenersi che in quella sede è accertata l’esistenza di una intesa concorrenziale ovvero di illecite pratiche concordate”. Aggiungeva che parte attrice, pur avendone l’onere, non aveva dimostrato, nè chiesto di provare, che, in ispregio alle indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, l’ABI avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione comprensivo delle clausole censurate.

2. – La sentenza, pubblicata il 7 novembre 2014, è stata impugnata per cassazione da B.G. con un ricorso fondato su due motivi; resiste con controricorso la Banca Popolare di Bergamo, ora Unione di Banche Italiane s.p.a.. Sono state depositate memorie.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 287 del 1990, artt. 2, 14, 20 e 33, nonchè dell’art. 41 Cost., dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116, c.p.c.. Rileva l’istante che la Corte bresciana non aveva preso in considerazione due circostanze incontroverse: quella per cui era stato dimostrato che il contratto di fideiussione corrispondesse esattamente allo schema negoziale oggetto dell’istruttoria della Banca d’Italia conclusasi con il provvedimento del 2 maggio 2005; quella per cui la stessa banca convenuta si era limitata a negare l’intesa “a monte” senza mai contestare, tantomeno specificamente, che le richiamate clausole del contratto di fideiussione (artt. 2, 6 e 8) fossero diverse da quelle già in uso nella prassi del sistema bancario e riprodotte nello schema ABI. Deduce il ricorrente che l’istruttoria e il provvedimento della Banca d’Italia del 2005 – la quale nella circostanza aveva operato nell’esercizio dei poteri attribuiti alla stessa quale autorità garante per l’accertamento delle violazioni della legge antitrust nel settore creditizio – costituivano una inoppugnabile prova privilegiata dell’illecito posto in atto dalla controparte.

Col secondo mezzo è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dal fatto che, secondo la sentenza impugnata, l’attore non avrebbe fornito prova dell’illecita intesa a monte; è altresì lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729, c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.. La Corte di appello, secondo l’istante, non avrebbe considerato, o comunque compreso, la natura di prova privilegiata degli atti del procedimento intrapreso dalla Banca d’Italia, nè avrebbe valutato le presunzioni, gravi, precise e concordanti, da esso derivanti. Ad avviso del ricorrente, dalla lettura integrale dell’istruttoria, del parere espresso dall’AGCM e dal provvedimento della Banca d’Italia emergeva chiaramente l’accertamento circa il fatto che le banche avevano già in uso uno schema contrattuale in cui erano riprodotte le clausole nulle e che queste ultime avevano continuato a trovare ingresso nei contratti di fideiussione anche dopo l’emanazione del provvedimento di cui si è detto.

2. – La banca controricorrente ha formulato talune eccezioni pregiudiziali.

2.1. – Ha eccepito preliminarmente l’improcedibilità del ricorso assumendo che sarebbe stata depositata copia di sentenza diversa da quella che l’istante avrebbe inteso impugnare.

L’eccezione è destituita di fondamento. Il provvedimento depositato è la sentenza della Corte di appello di Brescia del 24 aprile 2014, di cui in epigrafe.

2.2. – La stessa banca ha poi rilevato che il ricorso di controparte risulterebbe inammissibile a norma dell’art. 360 bis c.p.c.: essa ha ancorato detto assunto al rilievo per cui le clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 delle condizioni generali di contratto sarebbero ritenute costantemente valide dalla giurisprudenza di legittimità.

Si osserva, però, che il profilo attinente alla legittimità delle menzionate disposizioni contrattuali risulta essere estraneo al decisum della Corte di appello, la quale si è limitata a dare atto della mancata dimostrazione di un accordo illecito e di pratiche illegittime concordate, rilevando, in sintesi, come il provvedimento della Banca d’Italia del 2 maggio 2005 non fornisse idoneo riscontro della denunciata intesa restrittiva in assenza di una diffusione dello schema di fideiussione che non fosse stato emendato nei termini indicati dallo stesso istituto. Non ricorre, dunque, la prospettata ipotesi del provvedimento che abbia deciso questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione.

2.3. – La controricorrente ha pure opposto che il ricorrente risulterebbe essere carente dell’interesse ad impugnare la sentenza della Corte di appello. Ha osservato, in proposito, che ove pure fosse dichiarata la nullità di tutte o di alcune delle clausole di cui qui si dibatte, la fideiussione manterrebbe la propria validità in forza del principio generale di conservazione del negozio giuridico: infatti – aggiunge -, l’istituto di credito avrebbe richiesto a B.G. il rilascio della garanzia in questione anche in assenza delle clausole contestate, avendo precipuo interesse a garantire il soddisfacimento del debito contratto dall’obbligato principale.

E’ facile tuttavia obiettare che l’interesse ad agire richiesto dall’art. 100 c.p.c., in quanto condizione preliminare di ammissibilità della domanda giudiziaria, deve essere valutato alla stregua della prospettazione operata dalla parte (Cass. 9 maggio 2008, n. 11554), e non lo si può negare sul presupposto che le conseguenze da trarsi dai fatti allegati siano diverse da quelle sostenute dall’attore, attenendo ciò alla fondatezza nel merito della domanda (Cass. Sez. U. 15 maggio 2015, n. 9934).

3. – I due motivi, sopra riassunti, possono esaminarsi congiuntamente: ciò in considerazione della loro evidente connessione. Ed è da escludere che essi tendano, come lamentato dalla controricorrente, a una mera revisione critica del giudizio di fatto demandato al giudice del merito.

3.1. – La domanda proposta dall’odierno ricorrente avanti alla Corte di appello di Brescia risulta basarsi, come accennato, sull’esistenza di una intesa restrittiva della libertà di concorrenza L. n. 287 del 1990, ex art. 2. La prospettiva dell’azione intrapresa è quella additata dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il contratto cosiddetto “a valle” costituisce lo sbocco della suddetta intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Infatti, tale contratto, oltre ad estrinsecare l’intesa, la attua: come è stato spiegato, la ratio della nullità ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, è quella “di togliere alla volontà anticoncorrenziale a monte ogni funzione di copertura formale dei comportamenti a valle” (Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207, in motivazione).

L’attore – ricorda la sentenza impugnata – ha invocato a fondamento della pretesa azionata il provvedimento del 2 maggio 2005 della Banca d’Italia, cui, prima della modifica apportata dalla L. n. 262 del 2005, art. 19, comma 11, spettava l’accertamento delle infrazioni di cui al nominato art. 2 che si assumessero essere poste in atto dalle aziende di credito. Per quanto qui specificamente interessa, nel richiamato provvedimento della Banca di Italia era disposto: “Gli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a)”.

3.2. – Questa Corte ha precisato che nel giudizio instaurato, ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 2, per il risarcimento dei danni derivanti da intese restrittive della libertà di concorrenza, pratiche concordate o abuso di posizione dominante, le conclusioni assunte dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, nonchè le decisioni del giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni, costituiscano una prova privilegiata, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti offrano prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie (Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640). Si tratta di affermazione che trova sostanziale corrispondenza nella proclamazione del principio – reso con riferimento al giudizio promosso dall’assicurato per il risarcimento del danno patito per l’elevato premio corrisposto in conseguenza di un’illecita intesa restrittiva della concorrenza, tra compagnie assicuratrici – secondo cui il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità Garante per la Concorrenza ha una elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori e consente di presumere, senza violazione del principio praesumptum de praesumpto non admittitur, che dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati, nel quale è ricompreso, come essenziale componente, il pregiudizio subito dal singolo assicurato (Cass. 28 maggio 2014, n. 11904; cfr. pure, in tema, ad es.: Cass. 23 aprile 2014, n. 9116; Cass. 22 maggio 2013, n. 12551; Cass. 9 maggio 2012, n. 7039; Cass. 20 giugno 2011, n. 13486).

3.3. – Sulla base di tali premesse, è possibile cogliere, nella sentenza impugnata, due errori giuridici.

Il primo è dato dalla impropria valorizzazione della mancata presenza, all’interno del richiamato provvedimento della Banca d’Italia del 2 maggio 2005, di diffide o sanzioni.

Infatti – anche a voler prescindere dal rilievo per cui il provvedimento in questione presentava un contenuto prescrittivo, essendosi in esso stabilito che l’ABI emendasse le proprie circolari con riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale da diffondere presso il sistema bancario, trasmettendo preventivamente gli atti così corretti alla Banca d’Italia -, ciò che rileva, ai presenti fini, è che i fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento amministrativo non siano più controvertibili, nè utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso; infatti, benchè l’accertamento stesso abbia avuto luogo in un procedimento svoltosi tra le imprese e l’autorità competente, “deve ritenersi che la circostanza che il singolo utente o consumatore sia beneficiario della normativa in tema di concorrenza (per tutte, Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475) comporta pure, al fine di attribuire effettività alla tutela dei primi ed un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante, la piena utilizzabilità da parte loro, una volta accertate condotte di violazione della normativa di settore posta anche a loro tutela, degli accertamenti conseguiti nel procedimento di cui pure non sono stati formalmente parte”; in tal senso, il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico “impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede” (Cass. 20 giugno 2011, n. 13486 cit.). Una conclusione in tal senso poggia, del resto, sull’assioma per cui “il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante”: per modo che “teorizzare la profonda cesura tra contratto a monte e contratto a valle, per derivarne che, in via generale, la prova dell’uno non può mai costituire anche prova dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale (4 è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato” (Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305). E tale rilievo si coniuga con una duplice considerazione: per un verso, nel sistema della L. n. 287 del 1990, come del resto nella disciplina comunitaria, private e public enforcement, e cioè tutela civilistica e tutela pubblicistica, sono tra loro complementari; per altro verso, il principio di effettività e di unitarietà dell’ordinamento non consente di ritenere irrilevante il provvedimento amministrativo nel giudizio civile, considerato anche che le due tutele sono previste nell’ambito dello stesso testo normativo e nell’ambito di un’unitaria finalità: tanto più in considerazione dell’”evidente asimmetria informativa tra l’impresa partecipe dell’intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore, che si trova, salvo casi eccezionali da considerare di scuola, nell’impossibilità di fornire la prova tanto dell’intesa anticoncorrenziale quanto del conseguente danno patito e del relativo nesso di causalità” (Cass. 28 maggio 2014, n. 11904 cit.).

Quel che rileva è, dunque, l’accertamento dell’intesa restrittiva da parte della Banca d’Italia: non il fatto che, in dipendenza di tale accertamento, siano state pronunciate diffide o sanzioni. Infatti, ciò che assumeva rilievo dirimente, nella controversia portata all’esame della Corte di Brescia, era la presenza o meno di un’intesa tra imprese il cui oggetto o effetto fosse quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante attraverso la fissazione di specifiche condizioni contrattuali.

Il dato costituito dalla rilevazione, da parte dell’autorità competente, dell’illecito concorrenziale va poi desunto dal contenuto sostanziale e complessivo del provvedimento amministrativo, non da singole locuzioni che, isolatamente assunte, possano presentare un significato ambiguo o fuorviante: così la portata dell’espressione secondo cui i richiamati artt. 2, 6 e 8 “contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a)” andava apprezzata verificando se il provvedimento avesse mancato di prendere posizione sull’esistenza dell’intesa restrittiva e, quindi, sulla diffusione, presso gli istituti di credito, dei testi negoziali comprendenti le citate clausole; ciò che il ricorrente ha specificamente negato, richiamando specifici passaggi del provvedimento stesso (nn. 49, 50, 57, 58, 60, 93).

Il secondo errore in cui è incorsa la Corte di appello si rinviene nell’affermazione per cui non sarebbe provato che, contravvenendo a quanto prescritto dalla Banca d’Italia, l’ABI avesse egualmente diffuso il testo delle condizioni generali del contratto di fideiussione contenente le clausole che costituivano oggetto dell’intesa restrittiva.

Tale circostanza non è difatti decisiva. Quel che assume rilievo, ai fini della predicata inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8, è, all’evidenza, il fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita, come rilevato dalla cit. Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207 (cfr. in tema anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, secondo cui ai fini dell’illecito concorrenziale di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, rilevano tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato). Ciò che andava accertata, pertanto, non era la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva: giacchè, come è chiaro, l’illecito concorrenziale poteva configurarsi anche nel caso in cui l’ABI non avesse contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005, ma la Banca Popolare di Bergamo avesse egualmente sottoposto all’odierno ricorrente un modulo negoziale includente le disposizioni che costituivano comunque oggetto dell’intesa di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a).

Mette solo conto di aggiungere che risulta inappropriato il richiamo, operato nella memoria ex art. 378 c.p.c., da Unione di Banche Italiane, all’ordinanza n. 30818 del 2018 di questa Corte: tale pronuncia, oltre a riguardare parti diverse dagli odierni contendenti, si occupa dell’onere della prova in tema di illecito antitrust, affermando il principio, che qui va certamente ribadito, per cui compete all’attore che deduca un’intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell’intesa stessa. Le censure che è possibile svolgere in sede di legittimità contro il relativo accertamento del giudice del merito sono poi, per quanto limitate, variamente modulabili: ed è incontestabile che in questa sede si dibatta di profili che non coincidono con quelli di cui si è occupata la citata ordinanza.

4. – Nei termini che si sono indicati, il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata cassata.

Il giudice del rinvio, cui è devoluta la decisione sulle spese processuali del giudizio di legittimità, dovrà conformarsi al seguente principio di diritto: “In tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, con particolare riguardo a clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento adottato dalla Banca d’Italia prima della modifica di cui alla L. n. 262 del 2005, art. 19, comma 11, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante per la Concorrenza, una elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano pronunciate, e il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione, o non attuazione, della prescrizione contenuta nel provvedimento amministrativo con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019.