I filosofi diventano opinionisti ai tempi del Covid. “Filosofia in Agorà”: sull’esposizione mediatica della filosofia in televisione

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Giorgio Agamben
Giorgio Agamben

La pandemia ci ha insegnato una cosa: ai filosofi piace molto stare in televisione. Tuttavia, lungi dall’essere un giudizio di valore sul fenomeno, la mia è la mera registrazione di una tendenza: in tutte le trasmissioni con un minimo di velleità informativa non manca mai un rappresentante della categoria a dimostrare – come ho avuto modo di sostenere in un precedente articolo – la rinascita dell’interesse per la filosofia in Italia.

Ma questo è avvenuto grazie al Covid: lo sgretolamento del mondo prepandemico e del suo orizzonte di senso, la trasformazione radicale delle nostre abitudini quotidiane e la scoperta di questo ospite inquietante ha spinto molti a cercare una guida – o un maestro – nei filosofi che non si sono fatti scappare la ghiotta occasione di ritornare protagonisti del dibattito pubblico dopo anni passati nell’ombra.

I nostri filosofi – a partire da Giorgio Agamben – si sono mostrati luce nelle tenebre dell’incertezza pandemica: loro, maestri del dubbio per vocazione, hanno donato interpretazioni (ovviamente vere) e senso ad un mondo che lo aveva ormai perso; hanno dimostrato la superiorità della scienza filosofica nel giudicare i fenomeni storici e biopolitici rispetto alle scienze mediche e biologiche che, invece, in questi mesi hanno manifestato tutta la loro fallibilità e ipoteticità con messaggi contraddittori e sempre provvisori.

Le stesse religioni non riescono a stare dietro alla profondità di sguardo della filosofia, ma si appiattiscono ai dettami delle sgangherate scienze mediche e biologiche e ai loro prodotti pericolosi e sperimentali, i vaccini.

La filosofia, invece, e i suoi portavoce, i filosofi, offrono un punto fermo di osservazione del reale, libero da interessi particolari e, quindi, di fatto oggettivo. Sono persino auditi nelle commissioni del Senato, pronunciando parole decisive ed autentiche sul modo in cui si sta esercitando una dittatura sanitaria con il pretesto di un piccolissimo virus che, in fin dei conti, ha fatto pochi morti, solo lo 0,2% della popolazione mondiale.

I filosofi, specie quelli heideggeriani, lo sanno meglio di altri che dalla morte non si può scappare, anzi noi siamo esser-per-la-morte (con 4 trattini) cioè il nostro essere più autentico si rivela in quella possibilità che ci è più propria: la morte.

E il pensiero della morte non va fuggito, specie se i filosofi in questione sono italiani, quindi occidentali, bianchi e vivono in territori in cui è garantita la sanità pubblica.

Come hanno fatto notare Roberto Finelli e Tania Toffanin è «necessario […] uscire dal provincialismo del dibattito così italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali».

Boaventura de Sousa Santos, sociologo portoghese tra i fondatori del Forum Sociale Mondiale, è qualche anno che ci ricorda che le pandemie non uccidono così indiscriminatamente come si pensa, visto che «gran parte della popolazione mondiale non è in condizioni di seguire le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per proteggersi dal virus perché vive in spazi esigui o altamente inquinati, perché è obbligata a lavorare in condizioni rischiose per poter provvedere alla famiglia, perché detenuta in prigioni o in campi profughi, perché non ha sapone o acqua potabile, o la poca acqua disponibile serve per bere e cucinare, ecc.»[1].

La quarantena provocata dalla pandemia è insomma una quarantena dentro un’altra quarantena, quella del nostro capitalismo che non ci permette di immaginare il pianeta come la nostra casa comune e la Natura come la nostra madre originaria, cui dobbiamo amore e rispetto.

Di conseguenza, le analisi sulle cause e gli effetti del virus di filosofi che si fermano al proprio orizzonte nazionale e culturale sono miopi ed inefficaci, sono semplici opinioni.  E così facendo si completa un processo che finisce per trasformare il filosofo da cittadino del mondo ad opinionista.

[1] B. de Sousa Santos, La crudele pedagogia del virus, Castelvecchi, Roma 2020.


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a cura di Michele Lucivero

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