Pierpaolo Capovilla è un artista. Come musicista ha fondato gruppi come One Dimentional Man e Il Teatro degli Orrori. Ma Capovilla non è solo un bassista e cantante che scrive testi e canzoni mai banali. È anche (o soprattutto) una persona colta e sensibile che propone in giro per l’Italia le sue interpretazioni di poesie e scritti di autori come Pierpaolo Pasolini, Majakovskij, Celine, Artaud. Un cittadino che si occupa di questioni sociali e politiche. Un diffusore di cultura come ce ne sono pochi nel nostro paese. Insomma, è un artista vero.
Certo, forse, è poco conosciuto dal “grande pubblico” ma questo non importa e non diminuisce l’importanza di tutto quello che propone. Questo serve a inquadrare Capovilla come persona sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso. Qualcosa che faccia pensare. Così, in queste settimane, ha iniziato a presentare un reading dei lavori di un poeta sconosciuto.
Il poeta è Emidio Paolucci, che vive (o sopravvive) nel carcere di Pescara. Non ritengo sia importante sindacare su chi sia stato Emidio e sui crimini che ha compiuto. Certamente, anche da quello che lo stesso Capovilla racconta, Emidio è stato condannato perché ha commesso reati gravi, ma quello che traspare chiaramente dai versi che ha saputo scrivere è una profonda, amara visione della sua vita. Non troviamo compassione, ricerca di perdono o pietà. No di certo.
In quelle poesie che Capovilla interpreta con passione, sostenuto dal tappeto sonoro delle bellissime musiche originali composte e suonate da Paki Zennaro, c’è il calvario anche interiore di un uomo di fronte a tutti i suoi errori. C’è la sua disperazione, il suo tormento, un’esistenza che passa nell’assenza di un futuro degno di essere vissuto pienamente. C’è lo scorrere del tempo in giornate sempre uguali. C’è la ricerca di quei dettagli che possono sembrare un surrogato della libertà. Una sigaretta, il profumo del caffè, un ricordo. Non ci sono sconti, non vengono fatti a nessuno e tanto meno all’autore.
Ebbene, sabato scorso ho potuto assistere a una delle primissime recite che Capovilla e Zennaro hanno fatto dei versi di Paolucci. Vi assicuro che è stato come entrare nella cella di Emidio, nel suo mondo attuale. Lo si poteva quasi vedere, osservare i suoi gesti nella cella. Si potevano immaginare i suoi sentimenti, le sue veglie, le sue ansie e la disperazione di una vita sospesa, il suo futuro latitante. E si percepiva il tentativo di trovare una ragione per sopravvivere nella poesia. In quel qualcosa che ti fa sentire meno inutile e che permette di tirare fuori dalla mente quello che, ad un certo punto, risulta impossibile trattenere a meno di non lasciarsi sopraffare da un dolore ancora maggiore. La poesia diventa uno strumento per il riscatto.
Sabato si capiva come Capovilla stesse vivendo tutto quello che Paolucci voleva trasmetterci con parole dure e schiette. Taglienti come la lama di un rasoio. La bravura di Capovilla e di Zennaro è stata quella di trasferire, a chi ascoltava, l’emozione e i sentimenti del poeta e dell’uomo carcerato, che venivano resi tangibili da un’interpretazione magistrale. L’intenzione era molto chiara, non si voleva “intrattenere il pubblico” ma far pensare chi ascoltava. Non spettatori ma persone alle quali comunicare come, anche in quel carcere che si intravedeva attraverso le parole di un ergastolano, ci fosse qualcosa di importante, forse brutale ma anche bello. Qualcosa che è giusto conoscere.
Ci sono esistenze magari spezzate ma comunque presenti e dolorosamente vive. Anche in quella cella nella quale Emidio scrive i suoi versi esiste la bellezza della realtà. Una realtà che si fa fatica anche solo a immaginare.