La duplice presidenza di Gianni Zonin ai vertici della fallita Banca Popolare e di Fondazione Roi, l’entità voluta dal defunto marchese come principale erede delle proprie rilevanti fortune, ha inevitabilmente prodotto una conflittualità indigesta. La nipote del marchese arrivò a parlare di “malaffare” per la commistione fra le due entità, e la querela di Zonin portò altre questioni all’attenzione di Procura e Guardia dio Finanza per quello che può ritenersi ancora un forziere aperto: rivelato con annessi e connessi, che ne fanno una classica storia vicentina (di questi tempi), da un’altra vicenda di querele, stavolta all’incolpevole stampa
di Pino Dato, da Quaderni Vicentini n. 3/2019
Se in sede di interrogatorio della pratica monstre dal titolo ormai inquietante di Banca Popolare di Vicenza società per azioni la Procura della Repubblica del Tribunale di Vicenza riceve dal teste Barbara Ceschi a Santacroce dichiarazioni nette quanto, a loro volta, inquietanti, “concernenti presunte distrazioni, in favore di persone diverse dagli eredi, di beni mobili facenti parte del patrimonio di proprietà del defunto marchese Giuseppe Roi e destinati per volontà testamentaria alla Fondazione Giuseppe Roi”[1], è chiaro che il responsabile del procedimento in Procura, dottor Luigi Salvadori, non può restare né inerte né indifferente. E allora che fa? Chiama la Guardia di Finanza e le chiede di investigare.
Restiamo alla premessa. E cerchiamo di decrittare a beneficio degli ignari lettori.
Gli strali della nipote del marchese sul patrimonio della Fondazione Roi
Barbara Ceschi a Santacroce è nipote di primo grado del defunto marchese Giuseppe Roi. La sua testimonianza, in merito al procedimento penale sul dissesto della Banca che fu di Gianni Zonin e di migliaia di incolpevoli soci è stata voluta dalla Procura come conseguenza di un vero e proprio atto di accusa da lei pronunciato in sede di Assemblea, nell’occasione della trasformazione della banca società cooperativa in società per azioni… con Zonin dimissionario e Dolcetta nuovo presidente di facciata.
In quell’occasione l’intervento della Barbara Ceschi fece giustamente scalpore. Prima di tutto perché era la nipote di Roi, il quale, come è noto, stravedeva per il ‘mito’ Gianni Zonin, a cui infatti regalò il totale controllo della sua ricchissima Fondazione, da lui creata prima di andarsene nei pascoli del Cielo nel 2009. In secondo luogo, perché le accuse della signora Barbara furono puntuali e travolgenti.
Un vero e proprio J’accuse nei confronti della presidenza e della disinvolta politica attuata dalla banca zoniniana. In un’occasione che più ufficiale non avrebbe potuto essere, la nipote del marchese puntò i suoi strali sul patrimonio della Fondazione Roi, e in particolare su due poste fondamentali del suo attivo, le 471 mila azioni della BpV (29 milioni di euro secondo l’ultimo prezzo ufficiale) e l’immobile dell’ex cinema Corso.
Non ho nessun piacere a citarmi, ma Quaderni Vicentini fu uno dei pochi mezzi a dilungarsi sull’efficace e storico intervento, così scrivendo oltre tre anni fa:[2] (Qui anche uno dei numerosi “contributi” di VicenzaPiù: “L’ex Cinema Corso è stato pagato 2,5 milioni di euro dalla Fondazione Roi alla Will 2004. Che l’ha comprato da Cinema 5 alias Fininvest“, ndr)
“Perché Barbara Ceschi ha cercato il clamore della denuncia in un’assemblea pubblica come quella che ha sancito la trasformazione in spa della banca dei vicentini? Si dirà: perché è la nipote del marchese. Si dirà: perché si sa che a gestire il patrimonio della Roi sono i vertici della Banca Popolare, vale a dire Zonin presidente e Breganze vicepresidente, un ticket magico. Si dirà: perché vuole unire il suo sdegno a quello dei molti vicentini che sono stati, dalla svalutazione delle azioni, letteralmente depauperati. Si dirà: perché è a sua volta azionista della BpV e ha voluto togliersi, come nipote, un sassolino dalla scarpa. Si dirà: perché è una persona eticamente e giustamente indignata dalla pratica corrente del malaffare. Mi fermo: ho scritto malaffare. Perché non lo ho detto io: lo ha detto lei. Vediamo perché e come.”
La Fondazione e il malaffare
Barbara Ceschi in quell’ormai lontano 5 marzo 2016 in assemblea BpV pronunciò infatti queste precise parole: “La Fondazione Roi è stata governata dal malaffare.”
Quaderni Vicentini commentò: “Non è un’affermazione qualsiasi. È un preciso, circostanziato atto d’accusa. Di cui forze dell’Ordine e Magistratura non potrebbero, in teoria, non tener conto.” E infatti le dichiarazioni della Ceschi furono obbligatoriamente trascritte nell’R.G.N.R., il Registro Generale delle Notizie di Reato. La Procura sente parlare “di malaffare” e si muove di conseguenza. Indaga.
Un conto è la sventatezza amministrativa. Un conto è l’investimento sbagliato, succede a tutti di sbagliare. Le azioni di responsabilità contro gli amministratori sventati (che comprano 471 mila azioni della Banca Popolare, chissà perché) sono previste dalla legge. Ma dove c’è malaffare, c’è dolo. Una questione diversa.
Si muove la Procura, si muove Zonin (con Ambrosetti)
La Procura non poteva non muoversi. E con la Procura si mosse anche – più veloce della luce – il principale accusato della nipote di Roi, cioè Gianni Zonin. L’ex presidente (sia di Banca che di Fondazione) querelò immediatamente la Barbara Ceschi a Santacroce con il suo avvocato personale Ambrosetti che, guarda caso, era anche l’avvocato della Fondazione (a suggello del controllo di Zonin sull’una e sull’altra), chiedendo alla nipote del suo nobile mentore la bellezza di 1 milione di euro a risarcimento di diffamazione aggravata (chiese la stessa cifra a Giovanni Coviello ma la Fondazione, poi, dimessosi Zonin, chiese ed ottenne di transare per l’attacco al giornalista, ndr). L’equivalente di un suo anno di stipendio come presidente della banca oggi dissolta. Non mi dilungo sull’intrecciarsi delle azioni giudiziarie, l’interesse deve andare alla sostanza. Che è già piuttosto spessa di suo.
Prima di arrivare all’azione della Procura vale tuttavia la pena di ricordare che in quello storico intervento la nipote era andata anche in un interessante dettaglio sull’investimento dell’ex Cinema Corso e denunciò “chi ha deciso l’acquisto dell’immobile a 8 mila euro al metro quadro”, chiedendo a chi di dovere “la rimozione dell’attuale consiglio di amministrazione della Roi” (il cda Roi di cui Zonin era presidente, ndr)
L’interrogatorio e le “presunte distrazioni”
Quando il sostituto procuratore Salvadori interrogò il 13 luglio 2016 la signora, partendo ovviamente dalle sue denunce in merito alla Fondazione “governata dal malaffare”, non si limitò a incalzarla sulle due poste d’accusa citate sui generisin sede di assemblea, ma allargò lo spettro. Anche perché i faldoni relativi alla pratica “BpVi, Zonin e altri” richiedevano ulteriori notizie e, soprattutto, poteva aprirsi un nuovo filone d’indagine.
Come indagata per la querela di Zonin, la signora Barbara non poteva mentire a cuor leggero. Fu in quella occasione, davanti alle domande incalzanti del dottor Salvadori, che la nipote di Roi fece una dichiarazione che in sede di assemblea non avrebbe potuto fare e parlò di quelle “presunte distrazioni, in favore di persone diverse dagli eredi, di beni mobili facenti parte del patrimonio di proprietà del defunto marchese Giuseppe Roi e destinati per volontà testamentaria alla Fondazione Giuseppe Roi” (dal verbale II 1^26 di prot. Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Vicenza Gruppo Tutela Economia – Sezione Riciclaggio).
Detta in parole più umane, secondo la nipote qualche mano lesta avrebbe sottratto beni mobili di altissimo valore dal patrimonio del marchese prima che fosse consegnato ai forzieri della sua omonima Fondazione come da testamento olografo dello stesso.
Sentito tutto ciò, il magistrato non ha dubbi: deve muoversi la Guardia di Finanza.
Le tre presunte notizie di reato
Non si mosse il Nucleo di Polizia Tributaria di Vicenza per riscontrare se il dottor Gianni Zonin era stato diffamato dalle “insinuazioni” della nipote di Roi rese in sede assembleare (“il governo del malaffare”). Si mosse per verificare se presunte notizie di reato relative ad alcuni beni mobili presenti nel patrimonio del marchese – avori, monete d’oro e quadri– erano o meno stati trafugati da mani misteriose prima del passaggio alla Fondazione.
Scrive la Guardia di Finanza nel suo verbale: “Gli elementi emersi dalle dichiarazioni fornite da Ceschi a Santa Croce Barbara hanno trovato riscontro negli A.S.I. effettuati nei confronti di Giglioli Gianni, Filippi Zeffirino, Mellone Giorgio e Ceranto Gabriella”.
Ciò significa due cose: primo, che la Ceschi Barbara ha fatto riferimento nella sua deposizione ad altre persone, tra l’altro ben note a Vicenza, per supportare le proprie significative dichiarazioni; secondo, che ai militi della Finanza quelle persone, da loro sentite, hanno dato risposte, per così dire, coerenti. Per ripetere il linguaggio burocratico: le affermazioni della Ceschi hanno “trovato riscontro”. Non erano affatto accuse gratuite. Non era sola a farle. E qui l’indagine è partita.
Alla ricerca della grande eredità del marchese
Il lettore attento e curioso si chiederà: e la querela di Gianni Zonin con la sua richiesta di un milione di euro per le accuse rivoltegli in assemblea dalla Ceschi che fine ha fatto? È stata ritirata e patteggiata in un nulla di fatto (quella contro Coviello portò addirittura, come visto, a una transazione favorevole al querelato, ndr).
Questo a suo modo ha reso più lineare la ricerca della verità nella vicenda degli ori, degli avori e dei quadri. I due filoni sono indipendenti. Se beni preziosi sono spariti, siamo di fronte ad un furto bello e buono. Ma se l’amministrazione della Fondazione è messa sotto accusa, questo attiene ai rapporti fra la stessa, la dissolta Banca Popolare e il ruolo esclusivo e teoricamente conflittuale del suo ex presidente Zonin. Il furto ipotetico è un’altra questione, un altro ramo del contesto.
Certo, l’indagine cui era chiamata la Guardia di Finanza non era facile. Le notizie di reato erano convergenti ma la loro verifica impegnativa. Le ricchezze in questione – l’eredità del marchese Giuseppe Roi detto Boso– erano plurime, diversificate, allocate in luoghi e città diverse. Ma il marchese era morto nel 2009. Bisognava verificare la consistenza dell’eredità, i beneficiari-eredi, la Fondazione Roi in primo luogo, e soprattutto chi aveva dato esecuzione al testamento. Quest’ultimo passo era il più facile: il notaio incaricato dal giudice tutelare di provvedere alle formalità esecutive – cioè al trasferimento dei vari legati – alle persone indicate dal documento testamentario lasciato dal de cuius(cioè Roi), è un notaio ben noto in città, Mario Piovene. E da Piovene la Finanza è andata.
Qui non è trascurabile, anche ai fini della nostra cronaca, un curioso rilievo: il marchese ha lasciato due testamenti olografi, entrambi verbalizzati con inventario da un altro notaio di Vicenza, la dottoressa Francesca Bonvicini, alla quale i militi del Nucleo hanno reso necessariamente visita onde verificare i fondamentali documenti dell’enorme lascito, le cui date erano probabilmente molto ravvicinate, perché i due numeri di repertorio della Bonvicini, il 16788 e il 16845, sono distanziati di un solo mese (23 giugno 2009 e 30 luglio 2009). Ovviamente il testamento olografo ritenuto valido ai fini dell’eredità era l’ultimo (il 16845) a margine del quale la Finanza rileva: “Si evidenzia che nella circostanza non sono stati ravvisati beni di interesse investigativo destinati ad altri enti oltre la Fondazione Roi.”
Tradotto: è escluso che beneficiari diversi dalla Roi abbiano ricevuto gli avori, le monete d’oro, i quadri oggetto della nostra indagine.
Vicenza, Roma, Oria Valsolda: l’eredità è una e trina
Un notaio tira l’altro. Come le ciliegie. Il notaio Bonvicini, chiamata solo per registrare i due testamenti, ha mandato al notaio Piovene quanto in suo possesso affinché provvedesse all’esecuzione. La quale esecuzione avrebbe dovuto scontare una complessità non da poco perché i beneficiari indicati, oltre che persone fisiche, erano associazioni, enti, persone giuridiche, che dovevano a loro volta essere rappresentate da una persona fisica che si prendesse la briga di esserne ricettore a nome e per conto, e custode.
L’inventario Bonvicini dei beni che furono del marchese era il più corposo e rilevante in termini di valore perché comprendeva gli immobili di Vicenza, Roma e Oria Valsolda (la storica villa Roi-Fogazzaro) e i beni mobili conservati nelle abitazioni vicentine. Per l’inventario dei beni mobili presenti a Roma e a Oria Valsolda la legge esige che ci sia l’intervento di altri notai: Ieva Marco di Roma e Gianfranco Condòvdi Valsolda hanno provveduto a fare l’inventario dei beni mobili presenti nei corrispondenti immobili delle due località e inviarlo a Vicenza, sede deputata all’esecuzione. Con questi documenti, cercati e trovati presso il notaio Piovene, il panorama del grande lascito patrimoniale del marchese Roi era completo agli occhi dei militi della Finanza.
Ma i militi avevano una missione sola: verificare che, fra i lasciti inventariati, ci fossero i famosi ori, avori e quadri segnalati nella denuncia della nipote del marchese. Tali preziosi, se esistenti, non potevano che essere allocati nell’abitazione vicentina del marchese, non certo a Valsolda e a Roma.
Collezioni di avori, quadri, monete d’oro: individuate
Gli approfondimenti investigativi dei finanzieri del nucleo vicentino hanno prodotto, al di là di qualsiasi dubbio, una fondamentale conclusione, enunciata subito nel loro verbale. Questa:
“Si evidenzia che nel citato verbale (inventario di eredità Bonvicini relativo ai beni mobili di Vicenza, oltre che a tutti gli immobili,ndr) nell’elencazione dei beni mobili presenti nell’abitazione di Vicenza del defunto marchese, tra gli altri beni, si fa riferimento ad una collezione di avori (in grassetto nel testo, ndr) rinvenuta in un cassetto di un mobile presente nel corridoio che conduce ad uno studio. La suddetta collezione, minuziosamente dettagliata, sembrerebbe riconducibile alla stessa richiamata da più persone sentite in atti e “indebitamente” (virgolettato e corsivo nel testo, ndr) tenuta da Zonin Giovanni presso una delle sue abitazioni sita in Gambellara (possibile refuso in quanto Gambellara è sede dell’azienda Zonin, a meno che non fosse questo il luogo di “custodia” dei beni, mentre un’abitazione, oggi sotto sequestro per i fatti BPVi, è nella vicina Montebello, ndr).
Inoltre, il medesimo inventario fa riferimento ad una serie di dipinti, siti in alcune stanze ben precise del palazzo Roi di Vicenza (contràSan Marco, 37) risalenti a vari periodi storici (XVIII, XIX, XX sec.). Dalla suddetta repertazione di quadri, nonostante sia stata minuziosamente dettagliata all’interno del verbale acquisito, non è stato possibile effettuare una puntuale corrispondenza degli stessi con quelli richiamati da persona sentita in atti ed asseritamente tenuti “indebitamente” (virgolettato e corsivo nel testo, ndr) da Zonin Giovanni presso la propria abitazione di residenza sita in Gambellara .”
Avori e quadri sono lì. Non ci sono dubbi. Tra le due preziose collezioni trovate a Vicenza nell’abitazione del marchese, e destinate indiscutibilmente alla Fondazione dal secondo testamento Roi (verbale n. 16.845, verbale di inventario di eredità n. 16.891, entrambi a firma Bonvicini) ci sono anche quelli, avori e quadri, delle “presunte distrazioni in favore di persone diverse dagli eredi”.
Perfetto. Se c’erano prima, ci saranno anche adesso. Oppure non ci saranno più e allora qualcuno li ha “distratti”.
E le famose monete d’oro? I militi della Finanza non le hanno dimenticate, ovviamente, costituendo le stesse una non trascurabile ragione della loro visita allo studio del notaio Piovene. Tra i documenti relativi all’eredità Roi, acquisiti presso lo studio in copia fotostatica, fanno bella mostra di sé i 35 verbali del notaio relativi ad altrettante esecuzioni di consegna dei legati testamentari ai beneficiati del marchese. I militi della Finanza li enumerano ad uno ad uno indicandone anche il valore. In prima fila i beni lasciati alla Fondazione Roi e ritirati dal suo consigliere, ex prefetto di Vicenza, amico di Zonin, Sergio Porena. Le famose monete d’oro sono state consegnate il 4 maggio 2010 all’interno di un consistente capitolo ereditario di beni mobili[3] indicato in un valore stimato di complessivi euro 968.683, quasi un milione. Ma quanto valgono le monete? In una successiva nota i verbalizzanti affermano: “Dalla consultazione del verbale di consegna del 4 maggio 2010 non risulta essere stato attribuito alcun valore alla predetta collezione.” Strano ma vero.
Le dichiarazioni di Filippi, Ceranto, Giglioli
Nell’investigazione seguita alle dichiarazioni rese in interrogatorio dalla nipote di Roi, la Finanza ha sentito persone da lei indicate a supporto delle proprie tesi: Gianni Giglioli, commercialista, già assessore nella prima giunta Variati, Zeffirino Filippi, Giorgio Mellone, custode e uomo di fiducia del marchese nella villa di Oria di Valsolda, Gabriella Ceranto, tutte persone ben note al marchese. Le loro dichiarazioni hanno costituito un positivo riscontro a quelle di Barbara Ceschi a Santacroce. Significative in particolare le dichiarazioni verbalizzate di Zeffirino Filippi, fedele consigliere di amministrazione con Zonin presidente alla Banca Popolare per 17 anni, e di Gabriella Ceranto, storica governante di casa Roi, prediletta al marchese in particolare.
Zeffirino Filippi, le cui informazioni sono state definite dalla Finanza “di sicuro interesse investigativo”, ha dichiarato il 20 ottobre 2016: “Durante un consiglio di amministrazione della BPVI, del quale io stesso ero consigliere, il presidente Gianni Zonin ha presentato una richiesta di acquisto da parte del consigliere Zigliotto di tutta la collezione di monete. Il prezzo presentato era di 500 mila euro. Non sono in grado di stabilire il reale valore della collezione ma credo che fosse stato notevolmente superiore rispetto a quanto proposto dal consigliere Zigliotto.”
Sullo stesso tema delle preziosissime monete d’oro Gabriella Ceranto il 4 novembre 2016 dichiarava: “Sebbene io non l’abbia mai vista, ricordo che il marchese aveva una collezione di monete d’oro la quale, una parte fu acquistata dalla Banca Popolare di Vicenza (ora ivi esposta)…mentre la restante parte era stata inserita in un primo testamento redatto dal de cuius unitamente al ragionier Neri di Vicenza (amministratore del patrimonio del marchese ed ex esecutore testamentario) deceduto nel 2014, e che tale collezione era stata lasciata a me, a Giorgio Mellone e a tale Marcello Di Vuolo di Verona. Il ragionier Neri mi riferì che il successivo testamento fu completamente modificato, lasciandomi intendere che probabilmente fu indirizzato da qualcuno a lui molto vicino, ovvero Gianni Zonin, ed in questo nuovo testamento la collezione di monete d’oro non era più indicata e quindi non sono in grado di riferirvi la sua attuale ubicazione.”
Il capitolo “quadri” è citato da Zeffirino Filippi, che ha frequentato per anni aziende e case Zonin come amico e ospite di riguardo, quando dichiara ai finanzieri, con dettaglio di particolari, fra le altre cose:
“…Ricordo di aver notato quattro quadri, risalenti al ‘700-‘800, che non avevo mai visto nelle precedenti cene a casa di Zonin.”
Sul capitolo “avori” la storica governante di casa Roi Gabriella Ceranto è ancora più incisiva nei dettagli: “La collezione era composta da un corno lavorato, di circa 30 cm., raffigurante dei marinai, altri due corni più piccoli di circa 15 cm, raffiguranti sempre immagini marittime, infine un altro corno di circa 25/30 cm di colore marrone scuro, con lavorazioni in rilievo…”
In data diversa Zeffirino Filippi fra l’altro precisava non solo che gli avori esistevano, ed erano ben noti e appariscenti di loro, ma che li aveva visti a casa Zonin. Questa la dichiarazione dell’ex consigliere della Banca Popolare resa il 20 ottobre 2016 ai finanzieri: “Sono a conoscenza dell’esistenza di una grande collezione di oggetti in avorio di cui, parte di essa, composta da quattro pezzi, segnatamente delle spatole tutte con manico molto ben lavorate, ricordo di averle notate in bella vista su un tavolo posizionato all’interno di una sala, con accesso al giardino esterno, della villa di Gianni Zonin sita in Gambellara, durante una cena a cui ero stato invitato nell’autunno del 2010.”
Gianni Zonin e consorte: “Destinatari di un lascito di modico valore”
L’indagine della Finanza è eccellente. Mette insieme tutti gli elementi documentalmente verificabili, ne sottolinea le connessioni, rivela l’iter investigativo scelto (dichiarazione primaria, conferme sommarie dei fatti), indaga con costrutto logico sulla destinazione finale dei beni in questione, partendo ovviamente dalla rilevante, impressionante massa ereditaria del marchese.
E da tutto questo lavoro trae conclusioni semplicissime e nette:
– “La maggior parte, rilevantissima, dei beni lasciati dal marchese, mobili e immobili, è stata destinata alla Fondazione che porta il suo nome”;
– gli oggetti preziosi oggetto dell’indagine esistono senza ombra di dubbio (“l’effettiva esistenza di vari oggetti in avorio, di quadri di importante valore economico e di monete d’oro da collezione destinati alla Fondazione Roi”);
Per quanto riguarda Zonin Gianni, menzionato nelle dichiarazioni di denuncia e di testimonianza sommaria, la Finanza rileva che il suo nome e quello della moglie Zuffellato Silvana, nel lascito del marchese risultano menzionati ma solo “come destinatari di un lascito di modico valore”.[4]
Il messaggio definitivo di rito, inviato, dopo un’indagine tanto dettagliata e minuziosa, al destinatario unico del loro lavoro, cioè la Procura della Repubblica di Vicenza nella persona del dottor Luigi Salvadori recita così:
“L’attuale quadro conoscitivo non consente, tuttavia, di avere contezza della destinazione dei beni testamentari sopra individuati e, in particolare, di quelli ereditati dalla Fondazione Roi. Alla luce di quanto emerso dall’attività investigativa espletata, pur emergendo elementi indizianti, non sussistono elementi probatori volti a comprovare il delitto di appropriazione indebita o altri eventuali reati a carico di Zonin Giovanni e, con riferimento alle monete d’oro, Zigliotto Giuseppe.”
Tradotto: i beni denunciati come sottratti ci sono, gli indizi sono consistenti, le prove ancora no. Per concludere l’indagine, spiegano i militi, “si richiede alla S.V. (la Procura della Repubblica di Vicenza, ndr) di valutare l’emissione di un decreto di acquisizione documentale nei confronti della Fondazione Giuseppe Roi al fine di eseguire un riscontro analitico tra i registri/cataloghi, tenuti dalla stessa Fondazione, dei beni provenienti dai lasciti del de cuius, con la documentazione acquisita presso i citati studi notarili allo scopo di accertare l’effettiva presenza o l’eventuale nuova destinazione dei beni di interesse investigativo.”
Il verbale è del 2017, sono passati due anni abbondanti e la Procura, a nostra conoscenza, non ha rilasciato il decreto di acquisizione documentale presso la Fondazione Roi suggerito dalla Finanza. Oppure lo ha fatto ed è rimasto coperto dal segreto istruttorio.
I dubbi dai quali tutta questa straordinaria storia vicentina ha tratto forma e sviluppo non sono stati dissolti ma l’oggetto è significativo e chiaro di suo. Non servono sentenze definitive e illuminanti. Basta la storia a raccontarci la realtà.
Una banca che era il forziere dei vicentini, di un’intera città, si è dissolta, travolta dall’avidità, dalla piaggeria, dalla sudditanza interessata, dalla passività di chi sapeva, dalla pavidità dei più, dalla complicità di chi godeva senza meriti, dalle onorificenze senza onore. E dal silenzio sostanziale della stampa mentre il disastro si compiva tranquillamente.
Questa semplice banale significativa storiella di quadri, monete e avori è stata svelata dal coraggio e dall’imprudenza di un giornalista felice e sconosciuto (cfr. il libro omonimo di Gabriel Garcia Marquez, ndr), un po’ avventato, di nome Giovanni Coviello, che ha raccontato il finale presto mdim Gabriela Garcia Marqunto dell’accusa gettandosi sulla sua verità in un volo senza rete dal quale è uscito con qualche osso ammaccato e con una condanna che non sta né in cielo né in terra.
Il presidente doppio (di Banca e Fondazione) Gianni Zonin l’ha denunciato e con lui l’ipotetico acquirente di monete preziose a prezzo di saldo, l’ex presidente degli industriali Giuseppe Zigliotto.
Gianni Zonin ha svolto, nell’udienza processuale, il doppio ruolo di querelante e di testimone. Come teste ha, tra l’altro, dichiarato: “Questo è il verbale di consegna delle proprietà del marchese Roi: non c’è nessun avorio; non c’è nessuna collezione di monete d’oro (…) non esistono i quadri di cui è stato fatto cenno…”
Zonin, processando (e facendo condannare, ndr) Coviello, ha smentito i militi del Nucleo di Polizia Tributaria che hanno approfondito dritto e rovescio dell’incredibile vicenda ereditaria. Di cui il maggior beneficiario, la Fondazione Roi, è stata a lungo presieduta da Zonin, e ha ricevuto ori, avori e quadri “a sua insaputa”: quel ben noto tormentone tutto italiano che non avrà mai fine e che ha nel doppio presidente del grande disastro vicentino un nuovo epigono.
[1]Interrogatorio del dottor Luigi Salvadori, Procuratore della Repubblica di Vicenza, del 13 luglio 2016.
[2]Pino Dato, Fondazione Roi ed ex cinema Corso: le resistibili intese fra Zonin e Variati, Quaderni Vicentini n. 1/2016, p. 23.
[3]Libri e volumi antichi, mobilio, oggettistica in argento (caffettiera, piatti, candelieri), oggetti in oro con diamanti e platino di grande valore economico (bracciali, anelli, spille e orecchini), collezioni di francobolli, vari oggetti in ceramica, oggetti in cristallo, vari set in porcellana, vari coltellini, varie tabacchiere, orologi e monete d’oro da collezione(in grassetto in originale, ndr).
[4]A Zonin Gianni, personalmente, il marchese ha lasciato “una tabacchiera rotonda in bosso, scolpita con strumenti di vinificazione per un valore stimato pari ad euro 150,00”. A Zuffellato Silvana un servizio da tavola del valore stimato di euro 5000.