Fotografia della scuola italiana nei dati OCSE. “Filosofia in Agorà”: superato divario di genere, ma resta un enorme divario socio-economico

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Fotografia della scuola nei dati OCSEe
Fotografia della scuola nei dati OCSEe

Sono stati pubblicati qualche giorno fa i dati del rapporto Education at a glance 2021 dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sulla situazione dell’istruzione in Italia e il quadro che ne emerge, anche alla luce delle ripercussioni della pandemia sulle studentesse e sugli studenti, non è poi così tanto diverso da quello precedente all’irruzione del Covid e all’avvento della Didattica a Distanza nelle nostre scuole.

Si tratta di dati, ovviamente, di numeri e di statistiche, ma, si sa, i numeri presi da soli non sono significativi, “si contano”, ma non “raccontano”, per cui, parafrasando ciò che diceva tempo fa il giornalista americano Irving R. Levine, «Le statistiche sono come i bikini. Ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante», proviamo a far emergere ciò che è nascosto attraverso la nostra interpretazione di quei dati.

Vorremmo cercare di capire, ad esempio, a che punto è lo stato comatoso in cui versa la scuola pubblica, cioè se sia ancora opportuno impegnarsi nella ricerca di qualche farmaco che la ridesti dal suo torpore ormai decennale oppure sia il caso di praticare l’eutanasia, staccare la spina e congedarci definitivamente dal modello di scuola pubblica, laica e statale che i Padri costituenti ci hanno lasciato in eredità, ma che ricade poi costantemente sotto gli attacchi di aberranti e poco edificanti prospettive neoliberiste.

Ora, i redattori del rapporto non saranno certamente tutti marxisti e discepoli di Bourdieu o Althusser (autori che sostengono l’assenza di mobilità sociale nei sistemi culturali dei paesi occidentali), ma evidentemente i dati su un punto specifico non lasciano adito a interpretazioni. Infatti il documento si apre con l’affermazione secondo la quale «Lo status socioeconomico può incidere in maniera significativa sulla partecipazione degli studenti all’istruzione, in particolare a quelli che, in molti Paesi, dipendono maggiormente dalla spesa privata, quali l’istruzione e la cura della prima infanzia e l’istruzione universitaria».

Ciò, beninteso, accade un po’ in tutta Europa e in molti paesi OCSE (che comprendono anche altri 17 paesi non UE), ma in Italia, dicono le statistiche, l’istruzione secondaria e universitaria pesa maggiormente sul bilancio delle famiglie, sia attraverso le esose rette accademiche sia a causa delle pretese del mercato editoriale nel proporre nelle scuole secondarie manuali vecchi con copertine sempre aggiornate. È chiaro, dunque, ma questa è già una nostra prima banale deduzione, che non tutte le famiglie possono permettersi di mandare i figli ai licei e poi all’università a causa delle limitate risorse economiche e finanziarie, confermando di fatto un divario sociale e culturale che diventa sempre più profondo nella nostra popolazione e che si trasmette di famiglia in famiglia. Del resto, sottolinea ancora il rapporto OCSE «Grandi differenze nel livello di istruzione possono portare a disparità retributive più consistenti in molti paesi». E in Italia, ad esempio nel 2017 il 29% degli adulti tra i 25 e i 64 anni con una licenza di III media o con un titolo inferiore ha guadagnato la metà della retribuzione mediana della popolazione, che si aggira intorno ai 2000€.

Ora, se la logica ancora ci assiste, è chiaro che se gli adulti con basso livello di istruzione guadagnano poco, cioè circa 1000€ al mese, e l’università per funzionare ha bisogno di una spesa che per il 36% proviene dalla famiglie, nel senso che non è gratuita e non garantisce adeguatamente un sostegno alle famiglie meno abbienti, allora è piuttosto evidente che ad essere penalizzate nei percorsi formativi universitari saranno soprattutto le famiglie con uno status socioeconomico più basso, che saranno escluse da qualsiasi processo di ascensione sociale.

E la conclusione sorprendente, tra l’altro, stando a ciò che afferma il rapporto, è che il divario sociale ed economico, che squarcia la società immobilista dei nostri tempi moderni, «influenza i risultati dell’apprendimento più del genere e dello status di immigrati».

È curioso, infatti, scoprire che tra gli altri primati che l’Italia si è conquistata in questo speranzoso 2021, per la verità primati più di carattere sportivo che culturali, dal momento che siamo ultimi nella lettura, vi è quello di garantire il successo scolastico a donne e immigrati.

Superando il divario di genere, infatti, l’Italia vede le donne rappresentate al 62% nei percorsi liceali (a fronte della media OCSE del 55%), mentre solo al 38% nei percorsi tecnico-professionali, e tale divario di tipo culturale e professionale si mantiene anche all’università, dove il 35% delle donne tra i 25 e i 34 anni riesce a conseguire una laurea, mentre tra gli uomini si arriva solo al 23%, con dati che comunque sono i più bassi tra i paesi OCSE, le cui percentuali in media si attestano rispettivamente sul 52% e 39%.

A nostro avviso, però, il dato più significativo sta nella lettura dei dati inerenti a ciò che accade dopo l’università, nello scoprire che fine facciano tutte queste donne laureate e quali posizioni poi occupino nel mondo del lavoro. Ed ecco che il rapporto OCSE riesce ad intercettare un dato interessante: il 92% delle immatricolazioni ai percorsi di formazione per l’abilitazione all’insegnamento è rappresentato da persone di sesso femminile e ciò significa, inevitabilmente, che il divario di genere impatta fortemente non tanto contro i pregiudizi, ma contro una questione molto più concreta che ha a che fare con le tutele contrattuali che salvaguardano la loro condizione e la loro posizione nel momento in cui si assumono, quasi totalmente, l’onere di garantire all’umanità un seguito, una continuità andando incontro alla maternità.

E, allora, è chiaro che le donne, evidentemente più dotate dal punto di vista culturale e più prestanti in termini di successo nei percorsi formativi, piuttosto che farsi sfruttare e cominciare carriere che poi devono interrompere, andando incontro a meschini licenziamenti nel momento in cui rimangono incinte, preferiscono lavorare nella scuola pubblica e contribuire alla crescita delle nostre comunità nel campo dell’educazione. Le donne, in larga maggioranza, preferiscono, dunque, sacrificare le loro ambizioni carrieristiche, pur di non subire angherie e discriminazioni, ma avere garantiti tutti i diritti di maternità, astensione facoltativa e obbligatoria per rischio biologico, allattamento fino all’anno e malattia per figli/e fino al compimento dei tre anni, diritti che, tra l’altro, dovrebbero essere garantiti a tutte le lavoratrici e, dopo, anche ai lavoratori, non solo a quelli del settore pubblico.

Ecco, quando poi l’opinione pubblica, e anche una certa becera politica che ci sguazza con simili argomentazioni, smetterà di guardare a questi diritti come privilegi di una certa classe di lavoratori, allora forse riusciremo a far passare l’idea che le guerre tra poveri non hanno mai giovato a nessuno e che, anzi, bisogna lottare insieme affinché le tutele costituzionali a sostegno dei soggetti più fragili e delle famiglie, sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista contrattuale, vadano a vantaggio di tutta la comunità. Forse, quando avremo esteso a tutta la popolazione i diritti e il rispetto che le donne e gli uomini meritano in quanto lavoratori, allora riusciremo a superare quella tremenda divaricazione sociale, economica e culturale che sconta ancora oggi il nostro Paese a causa di qualche moderno bandito in veste manageriale.


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a cura di Michele Lucivero

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